Terapia del Campo Mentale TFT: Chirologia per capire la personalita': Counseling di chirologia da pagina 2 a 6 da pagina 7 a 30 da pagina 31 a 45 da pagina 46 a 60 da pagina 61 a 76 da pagina ...
Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 enricopallocca@gmail.com
E ADESSO A CHI LO DICO QUANDO NON C'E' PIU' NESSUNO A CUI DIRE LA NOSTRA PENA La #psicochirologia è capace di aiutare la persona ad interpretare gli aspetti della sua vita e ogni avvenimento può essere compreso secondo lo studio della #Chirologia #Amicizia #amore #lavoro e #salute cambiano significato se sono interpretati attraverso la lettura della mano
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lunedì 28 luglio 2014
Chirologia per capire la personalita'
Villa Mina Via dell'ospedale 1/3
06063 Passignano sul Trasimeno (Perugia)
Località Lago Trasimeno Castel Rigone
tel. 0757824761 fax 0757824761 cell. 3395018638
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sabato 19 luglio 2014
mercoledì 2 luglio 2014
Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa de Jesús Enseñanzas de santa Teresa de Jesús para nuestros días
En estas
páginas reflexiono sobre el «feminismo» de santa Teresa, la novedad de su mensaje
para su época y la actualidad del mismo para nuestros días. Me centro especialmente
en cuatro aspectos que caracterizan a Teresa de Jesús: mujer, escritora,
fundadora y maestra de oración.
Contenido
P. Eduardo Sanz de Miguel, o.c.d.
Inquieta y andariega. Enseñanzas de santa
Teresa de Jesús para nuestros días
Imprimi potest. P. José Francisco Santarrufina Alcaide, Provincial de los Carmelitas
Descalzos de Aragón-Valencia. Valencia (España), 20 de mayo de 2014.
Nihil Obstat. Imprimatur. Monseñor Amancio Escapa Aparicio, Obispo Auxiliar de la Arquidiócesis
de Santo Domingo y Vicario General de la misma. Santo Domingo (República
Dominicana), 30 de mayo de 2014.
1. Introducción
Estamos celebrando el quinto centenario del
nacimiento de santa Teresa de Jesús (1515-1582), madre espiritual del Carmelo
Descalzo. Hoy su familia está extendida por todo el mundo y consta de unas
13000 monjas carmelitas descalzas contemplativas, unos 4000 frailes carmelitas
descalzos, unas 60 congregaciones religiosas de vida activa e institutos
seculares afiliados a la Orden, algo más de 40000 miembros de la Orden seglar
del Carmelo Descalzo y varias asociaciones laicales más.
En nuestros días, ¿quién lee los escritos de
los grandes teólogos contemporáneos, como Domingo de Soto, Alfonso Salmerón,
Juan Arza, Francisco de Vitoria, Alfonso de Castro, Diego de Covarrubias o Melchor
Cano, que tanta importancia tuvieron en el concilio de Trento? Sin embargo, las
obras de santa Teresa siguen traduciéndose y editándose en numerosos idiomas. En
2008 se publicó un volumen de bibliografía teresiana que recoge 12647 títulos de
biografías, estudios históricos, literarios y teológicos, material audiovisual,
etc. sobre santa Teresa. Esas numerosas publicaciones nos dan una idea del gran
interés que esta mujer sigue despertando en el mundo entero.
Pero, ¿qué es lo que la hace actual para que
sigamos interesándonos por ella después de tanto tiempo? La respuesta es
sencilla: su experiencia. Ella no teoriza sobre cuestiones más o menos
interesantes, pero alejadas de la vida concreta, sino que se centra en lo
esencial: comparte la manifestación de Dios en su historia personal y nos
enseña a encontrar a Dios en nuestras vidas y a relacionarnos con Él.
Santa Teresa falleció a los 67 años de edad
en Alba de Tormes. Escribió varios libros que hoy son clásicos de la lengua
española y de la espiritualidad cristiana, especialmente el Libro de la Vida, el Camino de Perfección y el Castillo Interior (conocido también como
las Moradas), además de numerosas
poesías, cartas y otros escritos menores. Durante los últimos 15 años de su
vida fundó 17 monasterios de monjas y 15 de frailes. Después de su muerte, nuevos
conventos carmelitanos se multiplicaron rápidamente en los territorios de
España, Italia, Portugal, Francia, Países Bajos, Inglaterra, así como fuera de
Europa.
Sus escritos se editaron rápidamente. El Camino de Perfección en 1583 en Évora,
en 1585 en Salamanca y en 1587 en Valencia y la edición príncipe de sus obras
en 1588, acompañada de una larga carta de presentación de fray Luis de León. En
1590 se publicó la primera biografía de la Santa, escrita por Francisco de
Ribera. Ese mismo año se inició el proceso de canonización en Salamanca, en el
que comparecieron más de 300 testigos. En 1606 Diego de Yepes publicó una nueva
biografía. Y sus Obras se tradujeron al latín y a los otros idiomas europeos,
por lo que su influencia se extendió rápidamente fuera de las fronteras
españolas.
Desde muy pronto, reyes, obispos e
instituciones de España, Austria, Francia, Bélgica, Polonia… se dirigieron a
Roma pidiendo su canonización; aunque también llegaron acusaciones contra sus
escritos, que fueron rebatidas por autores importantes. En 1614, el papa afirma
en el decreto de beatificación: «Su memoria florece en todo el pueblo
cristiano; razón por la cual no solo la dicha Orden [de carmelitas descalzos],
sino también nuestro querido hijo Felipe, rey católico de las Españas, y casi
todos los arzobispos, obispos, príncipes, corporaciones, universidades y
súbditos de los reinos españoles han elevado a Nos repetidas veces humildes
súplicas…» Para las celebraciones de la beatificación se publicaron grabados,
libros y poesías, destacando las de Lope de Vega y Miguel de Cervantes. La
canonización tuvo lugar en 1622 en una ceremonia conjunta con san Isidro
labrador, san Ignacio de Loyola, san Francisco Javier y san Felipe Neri.
Antes de su beatificación ya se hablaba de su
«doctrina eminente», por lo que se la empezó a representar en pinturas y
esculturas en el acto de escribir, a veces iluminada por rayos divinos, otras
por el Espíritu Santo, otras con el birrete y otros atributos de los doctores.
También las oraciones litúrgicas recogieron expresiones que estaban reservadas
solo a los doctores, como: «concédenos imitar lo que hizo y realizar lo que
enseñó… así nos alimentemos con su doctrina celestial… fue dotada de admirable
gracia de erudición…»
A las numerosas peticiones para que se le
diera el reconocimiento oficial de doctora de la Iglesia, desde Roma se
respondía siempre con el tradicional «obstat sexus» (es decir: «lo impide el
sexo»). Sin embargo, el año 1622, en una ceremonia pública, los catedráticos de
la universidad de Salamanca revistieron una escultura suya con el birrete y
demás insignias correspondientes a los doctores, y el claustro de la misma
universidad la nombró formalmente doctora «honoris causa» en presencia de los
reyes de España en 1922. Posteriormente Pablo VI la distinguió con el título de
doctora de la Iglesia en 1970, siendo la primera mujer reconocida con ese
título «en atención a su sabiduría de las cosas divinas y al magisterio que
ejerce con sus escritos». Tras su declaración, solo tres mujeres más han
recibido la misma distinción (santa Catalina de Siena, santa Teresa de Lisieux
y santa Hildegarda de Bingen), lo que subraya aún más su originalidad.
Teresa de Jesús reúne en sí una actividad
incansable de viajes, compras de casas, negociaciones para conseguir permisos…
(que se recoge en el libro de las Fundaciones
y en sus innumerables cartas) y una profunda vida interior que se desboca en un
misticismo ardiente (que queda reflejado en el Castillo Interior). En ella se unen la introspección y el deseo de
comunicación, la firme voluntad de realizar grandes empresas y la llaneza en el
trato, la defensa decidida de algunos valores esenciales y la capacidad de
repensar otros y de adaptarse con facilidad a las circunstancias cambiantes. Esa
unión armónica de realidades tan distintas la hace especialmente atrayente. Además,
fue una mujer muy simpática. Las enfermedades, los trabajos, las humillaciones
y los desprecios nunca consiguieron apagar su optimismo.
2. Cosas de mujeres
Todos sabemos que santa Teresa es maestra de
oración y una de las más grandes místicas de la historia, pero a veces pasamos
por alto su dimensión humana, que resalta aún más si la consideramos en el
contexto histórico que le tocó vivir. Acostumbrados a mirarla en cuadros que la
representan entre ángeles y nubes, podemos olvidar que fue una mujer con los
pies en la tierra, plenamente consciente de la situación de inferioridad en que
se encontraba a causa de su sexo. Adelantándose a los tiempos, reivindicó con
fuerza la posibilidad de que las mujeres pudieran formarse y decidir por sí
mismas, sin estar sometidas a la tutela de los varones. Esto le causó muchas
dificultades, a las que hizo frente con decisión. En ese campo es un modelo
para nuestra sociedad, que tanto tiene que avanzar todavía para ofrecer iguales
oportunidades a cada persona para que pueda desarrollar sus capacidades y
decidir autónomamente, independientemente de su sexo, su raza o de otras
condiciones sociales o económicas.
La globalización de la información a la que
nos tiene acostumbrados internet nos permite conocer que en nuestros días las
mujeres tienen prohibido conducir un vehículo en algunos países y que en otros
tienen vetado el acceso a la cultura e incluso que no pueden salir a la calle
sin la compañía de un varón. Hay imágenes que nos hieren, porque nos hacen
tomar conciencia de que ser mujer significa una condena en algunas regiones del
planeta: por ejemplo, las mujeres afganas obligadas a cubrirse totalmente con
los burkas, pero aún más las niñas sometidas a mutilación genital en el norte
de África, las mujeres lapidadas por adúlteras en diversos países de Oriente
Medio y los feminicidios extendidos en muchas las regiones del planeta.
Pero no todos tienen la sensibilidad necesaria
para darse cuenta de la gravedad de estos comportamientos. Hay quienes los ven
normales e incluso quienes los justifican como manifestaciones de una cultura
determinada. Y no debemos olvidar que la situación del sexo femenino no ha sido
muy distinta entre nosotros en otros tiempos y que todavía falta mucho para que
se dé una igualdad real de derechos en la sociedad y en la Iglesia.
Si nosotros hemos llegado a comprender que
estas cosas no son normales, a pesar de que sean habituales en algunos sitios,
es gracias a la reflexión que muchas mujeres han realizado y a su lucha para
conseguir una igualdad de oportunidades con los varones, que la sociedad les
negaba. Entre ellas, Teresa de Jesús ocupa un lugar especial, sea por la
profundidad de su mensaje, sea por lo temprano del mismo.
En un mundo dominado por hombres, Teresa
defendió el derecho de las mujeres a estudiar y a decidir por sí mismas,
creando espacios en los que podían ser autónomas y autogestionarse. Ella estaba
convencida de que una mujer tiene las mismas capacidades que un hombre y sabía
que solo las pueden desarrollar si le permiten formarse. Por medio de su
palabra y de sus escritos, influyó notablemente en muchos contemporáneos suyos,
que quedaron convencidos de sus razones: el teólogo Domingo Báñez, el
inquisidor Francisco de Soto, su compañero de aventuras carmelitanas san Juan
de la Cruz o incluso el gran humanista fray Luis de León, que fue el primer
editor de sus obras.
3. Santa Teresa en su contexto
Teresa de Cepeda y Ahumada vivió durante el
«Renacimiento» europeo, en tiempos de la Reforma protestante y del Concilio de
Trento. Entre otros, fue contemporánea de Erasmo de Roterdam, Martín Lutero,
Miguel Ángel Buonarroti, Bartolomé de las Casas, Carlos V y Felipe II.
La suya fue una época compleja, de profundas
transformaciones geográficas, que ensancharon la percepción del mundo con el
descubrimiento de América y las conquistas europeas en África y Asia. La
sociedad medieval (agrícola y rural, de subsistencia) dio paso a una realidad
nueva (urbana, en la que el comercio y los talleres artesanales adquirieron
cada vez más importancia). Los cambios socio-económicos fueron acompañados por
nuevas estructuras políticas (surgieron los estados modernos) y culturales (las
universidades y la imprenta adquirieron una importancia fundamental en la
trasmisión de las ideas). Podemos hablar de un verdadero cambio epocal, que
afectó a todos los ámbitos del vivir y del pensar. También a las formas de
practicar la religión.
Salvando las distancias, fue algo similar a lo
que sucede en nuestros días, en los que las viejas estructuras sociales,
educativas, políticas y religiosas están en crisis, sin que consigamos adivinar
claramente hacia dónde nos dirigimos.
Castilla en el s. XVI
Teresa nace y vive en Castilla, que era el
corazón de España y que marcaba en Occidente los caminos de la política, de la
cultura e incluso de la moda. En esos años la «monarquía católica» hispana alcanzó
su máximo poderío económico, militar y político. Es el llamado «siglo de oro»
español, en el que las universidades de Salamanca y Alcalá eran referentes
culturales a nivel europeo; las Bellas Artes conocieron un desarrollo y una
creatividad sin precedentes en los pueblos y ciudades de España, que se llenaron
de templos, palacios, hospitales, edificios públicos y fuentes.
Por entonces compusieron su música Juan del
Encina y Tomás Luis de Victoria y escribieron Garcilaso de la Vega, fray Luis
de León, Lope de Vega, Luis de Góngora y Miguel de Cervantes. Arquitectos,
escultores y pintores italianos y flamencos se asentaron en las ciudades
españolas, que también se enriquecieron con las influencias artísticas que
llegaban del lejano Oriente, a través de Filipinas y con el incipiente arte
colonial americano. Mientras Juan de Herrera construía el Escorial, Diego de
Siloé, Juan de Juni y el Greco realizaban sus mejores obras.
Desde el corazón de Castilla, Felipe II gobernó
un imperio como nunca se había dado antes ni se ha repetido después, «en el que
nunca se ponía el sol», compuesto por las tierras de Castilla y sus posesiones
del norte de África, así como América y Filipinas; Aragón y sus posesiones en
el sur de Francia y en el Mediterráneo: Nápoles, Sicilia, Cerdeña, Orán, Túnez,
el Rosellón, el Franco-Condado, Cataluña y Valencia; Navarra, los Países Bajos,
el Imperio romano-germánico, el Milanesado, Portugal y sus colonias de África y
Asia.
Guerras y conflictos
No fue fácil mantener unidas tierras y gentes
tan distintas y lejanas entre sí. Las tropas españolas se vieron envueltas en
numerosas guerras internacionales: En primer lugar estaban las conquistas en el
Pacífico y en América, en las que participaron muchos conocidos y parientes de
Teresa. Cuando ella contaba 13 años sabe que ha llegado a Toledo Hernán Cortés,
conquistador del imperio de Moctezuma, acompañado por indios, animales y frutos
exóticos. Los varones de las familias acomodadas emigraron a América en busca
de nuevas posibilidades. Así lo hicieron los nueve hermanos varones de Teresa,
así como otros parientes y conocidos suyos. Varios de ellos cayeron en las
guerras entre los fieles a la corona contra Pizarro y los rebeldes. Con el
tiempo solo regresarán dos de sus hermanos: Lorenzo, enriquecido, y Pedro, loco
y arruinado.
Entre todos los enfrentamientos armados de la
época, el más largo y doloroso fue el de las guerras de religión entre
católicos y protestantes, que devastaron Europa entre 1524 y 1648. Es verdad
que la causa real era normalmente el choque entre las pretensiones de los príncipes
territoriales y las del emperador, así como los intereses económicos de las
potencias europeas. Pero las distintas facciones tomaron posturas a favor de
Roma o de Lutero. Ello conllevó que algunas prácticas cristianas tradicionales
que hasta el Concilio de Trento eran normales, pero que eran favorecidas por
los reformadores (como la lectura de la Biblia o la oración silenciosa), fueran
miradas con recelo e incluso prohibidas en los ambientes católicos.
Los Tercios españoles, además de en las
guerras de conquista y en las de religión, se vieron envueltos en muchos otros
conflictos: enfrentamientos con Francia por el control de Nápoles y el
Milanesado (el mismo padre de Teresa participó como caballero en la guerra de
Navarra, en la que resultó herido san Ignacio de Loyola), con el Papado por
otros intereses en la península italiana (el famoso «sacco» de Roma tuvo lugar cuando ella contaba doce años), con los
berberiscos y los turcos otomanos por el control del Mediterráneo (la batalla
de Lepanto tuvo lugar en 1571), con Inglaterra por el control del Atlántico (la
armada invencible fue derrotada en 1588), con los Países Bajos que buscaban la
independencia, con Portugal por derechos sucesorios..., sin que faltaran las
revueltas de los moriscos en el interior de la península Ibérica (de 1568 a 1571 se desarrolló la
guerra de las Alpujarras granadinas).
Demasiados enfrentamientos para una población
de apenas seis millones de habitantes. Las familias españolas vieron partir uno
tras otro a todos sus varones. Comenzaron a faltar los brazos necesarios para
el cultivo de la tierra. Esto, unido a algunos años de sequía y al continuo
crecimiento de los impuestos para mantener esa gran máquina belicista, provocó
el hambre y la miseria entre los que no pudieron emigrar. La familia de san
Juan de la Cruz es un ejemplo significativo. Su padre y un hermano murieron de
hambre y su otro hermano sobrevivió trampeando el resto de sus días.
La llegada del oro y la plata americanos hizo
crecer la inflación, a pesar de que una gran cantidad pasaba directamente de
las galeras a los depósitos de los prestamistas extranjeros. La monarquía hubo
de anunciar la bancarrota en varias ocasiones. Todas estas cosas provocaron
numerosas revueltas populares (insurrecciones en Flandes, en Castilla, en
Aragón, en Valencia, etc.), que fueron aplastadas sin miramientos. El pueblo tuvo
que desarrollar su ingenio e inventar mil tretas para sobrevivir. La literatura
picaresca de la época, como La Celestina
o El Lazarillo de Tormes, describe
perfectamente las contradicciones de aquel tiempo.
Además de los ideales conquistadores y
guerreros (fruto de los quinientos años de enfrentamientos contra los moros
durante la Reconquista), hay tres características que definen la sociedad en la
que vivió santa Teresa: la profunda religiosidad, que impregnaba todas las
dimensiones de la vida, la rígida división de la población en clases sociales y
el valor supremo de la «honra», que hoy nos resulta difícil de entender.
La religiosidad imperante
Sin duda, la característica más sobresaliente
es la profunda inquietud religiosa, que afectaba por igual a todas las capas de
la sociedad. Las manifestaciones religiosas están continuamente presentes y
envuelven la vida de la población en todas sus dimensiones, sin que haya
ninguna separación entre vida civil y eclesial. Basta ver el gran número de
conventos, iglesias parroquiales, ermitas y otros edificios destinados al uso
religioso de la época que se conservan diseminados por todo el territorio
español.
Al leer la literatura de aquel tiempo, se
puede ver que tanto en las ciudades como en el campo, en público como en la
intimidad del hogar, se hablaba de cuestiones religiosas: se discutía sobre la
presencia real de Cristo en la Eucaristía, sobre la existencia del purgatorio,
sobre la importancia de recibir los sacramentos con la disposición adecuada y
de hacer buenas obras para salvarse…
En los testamentos de la época nunca faltan
fondos para celebrar misas y sufragios, más o menos grandes según la capacidad
económica del difunto. En los inventarios que enumeran los objetos dejados en
herencia por personas de distintas condiciones, siempre aparecen cuadros y
esculturas de motivos religiosos, pero en muy raras ocasiones de motivos
profanos (basta ver los fondos de los museos españoles, con sujetos casi
exclusivamente religiosos, tan diferentes de los holandeses con sus paisajes o
de los italianos con sus escenas mitológicas). Lo mismo podemos decir de los
libros. De hecho, entre mediados del s. XV y mediados del s. XVI (cuando
empiezan a aparecer los Índices de libros
prohibidos), en España se publican cientos de libros de ascética y mística.
Igual que la niña Teresa leía vidas de Santos,
a los que quería imitar, le sucedió a Ignacio de Loyola y a una muchedumbre de
contemporáneos que tenían a los Santos por modelos de vida a imitar. Los
Santos, los profesores de teología, los misioneros y los religiosos de vida
austera eran tan atractivos para la gente del s. XVI como lo son hoy las
estrellas del cine, los deportistas de élite o los grandes empresarios.
Además, la principal actividad social de la
época era participar en sermones, procesiones y todo tipo de funciones
religiosas. En cada familia había varios miembros que se consagraban al
servicio del Señor en su propia patria o en las misiones de ultramar. Y se
puede afirmar que la totalidad de la población pertenecía a varias cofradías en
honor de la Virgen, de los Santos o de los misterios de la Semana Santa, así
como a otras con fines asistenciales en favor de los pobres, los huérfanos, los
enfermos o los encarcelados.
Los grupos sociales
La segunda característica es la rígida
división de la población en clases sociales claramente delimitadas, con formas
de presentarse, comportamientos y roles sociales bien definidos en cada caso.
Podemos hablar de cinco grupos (con graduaciones dentro de cada uno de ellos):
Los nobles formaban el grupo dominante. Eran
los propietarios de la mayoría de las tierras y de los bienes de consumo,
ocupaban los puestos claves de la administración pública (tanto civil como
eclesiástica), vivían de rentas, rechazaban el trabajo manual y estaban exentos
de pagar impuestos. Entre ellos abundaban los convencionalismos, los títulos y
tratamientos (cf. V 37,6-10).
Junto a ellos, detentaba el poder económico
una burguesía entregada al comercio, compuesta mayoritariamente por
descendientes de judíos, aunque a este grupo les estaban vedados la mayoría de
los cargos políticos y los tratamientos de honor, por lo que su mayor ansia era
incorporarse al grupo de los nobles, muchas veces comprando certificados de
hidalguía por grandes sumas de dinero.
Los clérigos y religiosos formaban un grupo
numeroso (que variaba entre el diez y el veinte por ciento de la población).
Entre ellos se daban las mismas divisiones que en el resto de la sociedad. El
alto clero se dedicaba a la administración de rentas y propiedades y la mayoría
de los sacerdotes, beaterios y muchos monasterios compartían las dificultades
del pueblo para cubrir sus necesidades vitales. Teresa aprecia sinceramente a
los obispos, religiosos y sacerdotes, a los que no considera «funcionarios
eclesiales», sino «capitanes» de los cristianos y «defensores» de la causa de
Cristo (cf. C 3,1-2).
La gran masa de los campesinos y obreros,
mayoritariamente ignorantes, trabajaba de sol a sol y sobrevivía a duras penas
con el fruto de su trabajo, pasando graves necesidades los años de sequía o
cuando, por cualquier motivo, subían los precios de los productos elementales.
Los «pobres de solemnidad» formaban una categoría
social específica en la que se entraba después de demostrar que no se tenían
bienes ni posibilidad de adquirirlos, ni familia a la que acudir, por lo que se
podía aspirar a algunas ayudas sociales que concedían las numerosas cofradías e
instituciones asistenciales de la época.
La «honra»
La tercera característica de la época es el
peculiar sentido del «honor» o de la «honra», que era el motor último de todas
las actividades y aspiraciones de esa sociedad. Por entonces se entendía la
honra como un reflejo de la opinión de los demás (la reputación, el prestigio)
y no como la posesión de unas virtudes. Por lo tanto, era honrado el que
recibía honores de la sociedad, el que era respetado, aquel al que se le
reconocían algunos derechos.
Lo afirma claramente Lope de Vega cuando
afirma en su obra Los comendadores de
Córdoba: «Ningún hombre es honrado por sí mismo, que del otro recibe la
honra un hombre. Ser vistoso un hombre y tener méritos no es ser honrado. De
donde es cierto que la honra está en otro y no en él mismo». Y lo reconfirma
también Teresa al afirmar: «Tengo para mí que honra y dinero casi siempre andan
juntos […]. Porque por maravilla, o nunca, hay honrado en el mundo si es pobre;
antes, aunque en sí sea honrado, le tienen en poco» (CE 2,5-6). La honra, pues,
es lo que los otros piensan de nosotros, la consideración que nos tienen.
La honra se expresaba en una serie de títulos
y gestos propios de cada clase social. Si no se respetaban las convenciones
sociales, se consideraba una afrenta o deshonra, que debía ser vengada. Por
honra se podía matar o dejarse morir de hambre (se puede pensar en todos los
personajes que desfilan por la literatura picaresca de la época: licenciados,
hidalgos o clérigos arruinados, que solo poseían una camisa, o dormían en el
suelo, o no tenían para comer, pero no se privaban de criada y escudero).
La honra conllevaba el reconocimiento social,
pero se convertía en una verdadera esclavitud: los vestidos, los alimentos, los
gestos, los tratamientos... tenían que ser conformes a la propia condición, lo
que lleva a escribir a Teresa: «Está el mundo de manera que habían de ser más
largas las vidas para aprender los puntos y novedades y maneras que hay de
crianza [...]. Porque no se toma en broma cuando hay descuido en el título que
se da a las personas, sino que tan de veras lo toman por afrenta, que es
menester hacer satisfacciones de vuestra intención si hay un descuido [...].
Hasta para aprender los títulos en los encabezamientos de las cartas se
necesita ser catedrático para saber cómo se ha de hacer, porque ya se deja
papel de una parte, ya de otra y a quien no se solía poner magnífico hay que
poner ilustre [...]. El Señor me ha hecho merced en sacarme de ese mundo. Allá
se avengan los que con tanto trabajo sustentan estas naderías» (V 37,9ss).
El trabajo manual se consideraba impropio de
gente honrada, excepto el cultivo de la tierra, asociado siempre a los
cristianos viejos. Los descendientes de conversos o de esclavos y los que
ejercían algunos oficios considerados viles estaban continuamente expuestos a
sufrir afrentas, podían ser detenidos por cualquier motivo y nunca podían
aspirar a formar parte de las clases influyentes de la sociedad. Muchos
oficios, tanto civiles como eclesiásticos, también les estaban vedados.
Es sorprendente la cantidad de páginas que
Santa Teresa dedica a hablar de «la pestilencia de la honra» o de «los negros
puntos de honra». Enseña a sus monjas a liberarse de esa lacra para ser
verdaderamente libres: «Anda tal el mundo, que si el padre es más bajo del
estado en que está el hijo, no se tiene para honrarlo en conocerlo por padre.
Esto no viene aquí, que sería infierno, sino que la que fuere más tome menos a
su padre en la boca: todas han de ser iguales». En las Constituciones llega a ordenar: «Nunca jamás la priora ni ninguna
de las hermanas pueda llamarse doña». De la honra y la fama escribe que son
«postizos sociales», que atentan contra la verdad y contra la libertad. Al
comentar el Padre Nuestro dedica un capítulo entero al tema: «En que trata lo
mucho que importa no hacer ningún caso del linaje las que de veras quieren ser
hijas de Dios» (CE 45).
Aunque tanto las instituciones civiles como
las religiosas pedían a los candidatos un certificado de «limpieza de sangre» (que
demostrara que no eran hijos ilegítimos nacidos fuera del matrimonio, ni
descendientes de judíos, musulmanes, gitanos, indios o negros), ella no
permitió que se introdujera esa norma en sus Constituciones. Solo desde la superación de esa esclavitud de la
honra (reputación, reconocimiento social, convenciones, prejuicios), podemos
entender su libertad de espíritu, que a muchos atraía y a algunos causaba
escándalo.
Los orígenes familiares de Teresa
Hasta hace pocos años, todas las biografías de
santa Teresa comenzaban recordando sus nobles antepasados (algunas
contemporáneas siguen haciéndolo, a pesar de que históricamente sea una
falsedad). Ya en los procesos de canonización muchos testifican que era
descendiente de cristianos viejos y de noble familia «como todos sabían». Y es
que la religiosidad barroca daba por supuesto que la sangre de una Santa no
podía estar «contaminada» por ascendientes plebeyos.
De hecho, cuando en 1946, en un legajo de la
Chancillería de Valladolid se encontraron unos documentos que demostraban que
el abuelo paterno de santa Teresa era un convertido del judaísmo que había
tenido problemas con la Inquisición y se publicó un extracto de los mismos, los
documentos desaparecieron misteriosamente, por lo que muchos se negaron a
creerlo. Pero los pleitos de hidalguía de los Cepeda volvieron a aparecer en el
mismo sitio y con el mismo misterio en 1986. Allí se ve que su abuelo, padre y
tíos se trasladaron desde Toledo a Ávila intentando olvidar las afrentas
recibidas a causa de sus orígenes. En la ciudad amurallada compraron un caserón
histórico y un certificado de hidalguía falso, que les eximía de pagar
impuestos y les ofrecía otros privilegios, y se dedicaron a dilapidar la
fortuna amasada con tantos esfuerzos, para aparentar una condición que no poseían:
la de cristianos viejos.
Los hijos de Juan Sánchez, incluido el que
sería padre de Teresa, casaron con doncellas de la baja nobleza y cambiaron el
apellido de su padre por el de sus esposas. En Ávila se dedicaron a la vida de
los caballeros de la época: paseos por la ciudad, vestidos con telas caras y
acompañados de abundante servidumbre, cacerías en la montaña, temporadas en la
casa solariega del campo y –por supuesto– nada de trabajos manuales que
pudieran manchar la «honra» de la familia.
La vida de un hidalgo de la época la describe
perfectamente el Caballero del Verde
Gabán cuando se presenta a D. Quijote: «Yo soy un hidalgo más que
medianamente rico y es mi nombre don Diego de Miranda; paso la vida con mi
mujer, con mis hijos y con mis amigos; mis ejercicios son el de la caza y
pesca. Tengo hasta seis docenas de libros, cuáles de romance y cuáles de latín,
de historia algunos y de devoción otros. Alguna vez como con mis amigos y
muchas veces los convido, oigo misa cada día, reparto de mis bienes con los
pobres, soy devoto de Nuestra Señora y confío siempre en la misericordia
infinita de Dios Nuestro Señor».
Ese es el estilo de vida que siguieron los
tíos, el padre y los hermanos de Teresa en Ávila, marcado por el esfuerzo para
disimular sus orígenes, aparentar una hidalguía que no poseían y conseguir ser
«honrados» (recibir honor de los otros). En este ambiente creció Teresa y desde
aquí podemos comprender que casi todos sus bienhechores fueron comerciantes,
que muchos nobles desconfiaran de ella y que ella se muestre tan crítica con
los convencionalismos sociales y hable tanto sobre la esclavitud de la honra.
Como es natural, en el Libro de la Vida ella no hace referencia a los pleitos familiares
para conseguir un título de hidalguía, pero tampoco dice que sus padres fueran
nobles (al contrario que todos sus biógrafos antiguos), sino que eran
«virtuosos y temerosos de Dios, [...] de mucha caridad con los pobres y
grandísima honestidad» (V 1,1ss). En cierta ocasión que el P. Gracián se puso a
hablar de la nobleza del linaje de la Santa, ella «se enojó mucho conmigo
porque trataba de esto, y dijo que a ella le bastaba ser hija de la Iglesia
Católica y que más le pesaba haber hecho un solo pecado, que si fuera
descendiente de los más viles y bajos villanos y confesos del mundo». Incluso,
hablando de la fundación de Sevilla, llega a afirmar que allí recibió unos
honores que no le venían del «linaje», como dando a entender que era conocida
su ascendencia: «Mirad, hijas mías, la mano de Dios. Pues no sería por ser yo
de sangre ilustre el hacerme honra» (F 27,12).
Ella había reflexionado mucho sobre estas
cosas, especialmente con motivo de la fundación de Toledo, donde había tantos
miembros de la alta nobleza que se decían sus amigos. Ninguno de ellos la apoyó
e incluso intentaron impedir la fundación porque Teresa aceptó la ayuda de un
comerciante convertido del judaísmo. Así lo cuenta en una Cuenta de Conciencia: «Estando en el monasterio de Toledo, algunos
me aconsejaban que no diese enterramiento en él a quien no fuese caballero.
Díjome el Señor: “Mucho te desatinará, hija, si miras las leyes del mundo. Pon
los ojos en mí, pobre y despreciado por él. ¿Por ventura los grandes del mundo
serán grandes delante de mí? ¿Y vosotras, habéis de ser estimadas por linajes o
por virtudes?» (CC 5). Jesús mismo confirma a Teresa en su manera de actuar: no
debe tener como referencia a los «grandes» de este mundo ni las convecciones
sociales del momento, tan alejadas del evangelio.
Subrayo este tema (como haré más tarde con su
condición de mujer), porque solo así podemos comprender que Teresa fue una
persona de su época, pero no se identificó totalmente con ella; vivió inmersa
en la sociedad castellana del s. XVI, aunque sin estar totalmente integrada en
esa sociedad; fue consciente de lo que sus contemporáneos consideraban
«valores», pero no los asumió todos ni de la misma manera que los aceptaba la
mayoría. No se salió de las estructuras sociales de su entorno, pero siempre se
mantuvo en sus márgenes. Esto le permitió dirigir una mirada crítica a las
costumbres e instituciones que los demás asumían con naturalidad. Su misma
religiosidad no se identifica totalmente con las prácticas y devociones de su
entorno.
En Teresa descubrimos una continua búsqueda de
lo único que es real, auténtico y consistente en medio de las mentiras y
convencionalismos de su sociedad. Se elevó por encima de su ambiente y de su
tiempo, buscando nuevos horizontes. Por eso su mensaje será siempre actual,
porque usando el lenguaje y las formas de una época concreta, está por encima
del mismo lenguaje y de las mismas formas que utiliza y a los que desborda. La
ignorancia de estos presupuestos nos incapacitaría para comprender la
originalidad de santa Teresa y el significado real de la mayoría de sus
páginas.
Mujer consciente
Teresa fue plenamente consciente de lo que
sucedía a su alrededor. Es sorprendente la cantidad de referencias que
encontramos en sus obras al Concilio de Trento, a las guerras de religión, a
las revueltas de los moriscos, a los enfrentamientos con Francia y Portugal, a
los procesos inquisitoriales, a los índices de libros prohibidos, a las
conquistas americanas y a los productos que de allí llegaban: patatas, cocos,
pipote, tacamata...
La Santa tuvo relación directa o epistolar con
personas de todos los estratos de la sociedad del momento: el rey Felipe II y
sus secretarios, correos mayores y administradores, príncipes e infantas,
virreyes, cortesanos y nobles rurales, profesores universitarios y estudiantes,
campesinos y mendigos, banqueros y mercaderes, albañiles y arrieros. Entre los
eclesiásticos se trató con cardenales, nuncios y obispos, teólogos y
misioneros, religiosos de casi todas las congregaciones contemporáneas,
poderosas abadesas y beatas pícaras, sin olvidar a numerosos Santos canonizados
de su época: san Pío V, san Pedro de Alcántara, san Juan de Ávila, san Luis
Bertrán, san Francisco de Borja, san Juan de Ribera, san Juan de la Cruz. Algo
inaudito para una mujer del s. XVI y más aún ¡monja de clausura!
Carácter afable
Nos encontramos ante una mujer dotada de una
inteligencia despierta, de una voluntad intrépida y de un carácter abierto y
comunicativo. Su ingenio y simpatía la convirtieron en la hija preferida de sus
padres y capitana de todos los juegos de infancia. Ella misma reconoce que «las
gracias de naturaleza que el Señor me había dado, según decían, eran muchas» (V
1,9). Un contemporáneo suyo, el P. Pedro de la Purificación, escribió: «Una
cosa me espantaba de la conversación de esta gloriosa madre, y es que, aunque
estuviese hablando tres y cuatro horas, tenía tan suave conversación, tan altas
palabras y la boca tan llena de alegría, que nunca cansaba y no había quien se
pudiera despedir de ella». Parecido es el testimonio de la Hna. María de san
José: «Daba gran contento mirarla y oírla, porque era muy apacible y graciosa».
Fray Luis de León añade: «Nadie la conversó que no se perdiese por ella».
Cuando se visitan los monasterios que fundó
santa Teresa, sorprende que en muchos se conservan algunas reliquias especiales
que le pertenecieron: castañuelas, tambores, flautas y otros instrumentos
musicales. Y es que a Teresa le gustaba componer e interpretar canciones y
poesías para animar las fiestas conventuales. Incluso decía que una de las
señales que indicaban que una novicia tenía verdadera vocación es que tuviera
ganas de reír.
En una ocasión se encontraba en el monasterio
de Soria. La comunidad eligió como priora a la madre Catalina de Cristo. Una
monja preguntó a una novicia qué le parecía la madre fundadora. La novicia
respondió con sencillez que no le parecía tan santa como ella se esperaba,
porque se reía mucho. Que le parecía más santa la priora de la casa, que era
más seria. Santa Teresa lo oyó y le dijo a la novicia: «¡Alto ahí! La madre
Catalina es más santa que yo porque es muy virtuosa, en eso dices verdad, que
yo tengo la fama y ella las virtudes. Pero no es más santa porque se ríe poco,
que eso no es una virtud, sino un defecto!»
Sor Juana de la Cruz, abadesa de las descalzas
reales de Madrid, cuando conoció a santa Teresa en 1569, dijo a sus monjas:
«Bendito sea Dios, que nos ha permitido ver una Santa a quien todas podemos
imitar, que come, duerme y habla como nosotras y anda sin ceremonias».
Verdaderamente ella era muy poco amiga de ceremonias tanto en la vida como en
el culto cristiano: le gustaban las cosas sencillas y «sin artificio».
Su sobrina Teresita, hija de Lorenzo de
Cepeda, testimonió a su muerte: «Tenía un exterior tan desenfadado y cortesano,
que nadie por eso la juzgaba por santa; pero tenía en toda ella un no sé qué
tan de sustancia, que hacía fuerza que creyesen y viesen los que la trataban,
que era muy santa sin esforzarse por parecerlo».
Para santa Teresa, la alegría era una opción
de vida que brotaba del saberse amada gratuitamente: «[Dios] no es aceptador de
personas; a todos ama. […] No puedo decir lo que se siente cuando el Señor le
da a entender secretos y grandezas suyas, el deleite tan por encima de los que
se pueden tener acá» (V 27,12).
Su simpatía natural y su buen humor le abrieron
numerosas puertas y le ayudaron a entretejer una compleja red de relaciones y
de amistades incondicionales con personas de las más variadas proveniencias
sociales, aunque también le crearon serias dificultades entre los que no veían
compatibles la afabilidad y la santidad. Ella tenía muy claro que «cuanto más
santas, han de ser más conversables», porque «la caridad crece al ser
comunicada». También decía: «Dios nos libre de los santos encapotados», porque
«un Santo triste es un triste Santo» y «un alma apretada no puede servir bien a
Dios». Y le gustaba repetir: «Tristeza y melancolía, no las quiero en casa
mía». Pero la mayoría de sus contemporáneos identificaban la santidad con la
gravedad y consideraban que la sencillez y el buen humor eran sinónimos de
superficialidad.
4. Teresa escritora
Para comprender la singularidad de Teresa de
Jesús, tenemos que detenernos unos momentos para tomar conciencia de lo que
significa que esa mujer fue escritora. Basta intentar hacer un listado de
mujeres escritoras anteriores al s. XIX para darnos cuenta del escaso número
que conseguimos recordar. Se conservan miles de folios autógrafos de Teresa
(cosa única también para los escritores varones de su época).
Sus escritos son un fiel reflejo de su persona
y el mejor camino que tenemos para conocerla. Ella era consciente y, de hecho,
al enviar el manuscrito del Libro de la
Vida al P. García de Toledo, le asegura: «Aquí le entrego mi alma» y cuando
escribe a Dª Luisa de la Cerda pidiéndole informaciones sobre el manuscrito, dice:
«Puesto que la entregué mi alma, no deje de cumplir con mi encargo».
Sin embargo, hoy no podemos seguir manteniendo
el prejuicio –tan repetido en tiempos pasados– de que Teresa escribe descuidadamente,
como habla, de manera espontánea, sin esforzarse en la redacción de sus obras.
Es cierto que era amiga de la «llaneza y claridad», como dice en una de sus
cartas, por lo que no utiliza muchos artificios retóricos. También es verdad
que en ocasiones no usa borradores ni tiene tiempo para repasar lo que ha
escrito. Pero no debemos ignorar que algunos de sus símbolos son muy elaborados
y que reescribe completamente varios de sus tratados (el Libro de la Vida y el Camino
de Perfección, por ejemplo, y en parte también el Comentario al Cantar de los Cantares). Además, las importantes
lagunas sobre temas conflictivos (como la ascendencia judía de su padre, los
juicios inquisitoriales de Sevilla y Valladolid…) y sus repetidas
justificaciones y excusas por atreverse a escribir, a pesar de ser mujer, nos indican
que las cosas no son tan sencillas como podrían parecer a primera vista.
Teresa no escribe para sí misma, sino para ser
leída por otros: por sus confesores y consejeros, por sus monjas, por sus
amistades y por un círculo amplio de desconocidos destinatarios a los que ella
quiere llegar. Por eso, al contar su experiencia oracional, tiene mucho cuidado
con lo que quiere decir y también con
lo que no puede o no debe decir en público. Para entender
su pensamiento, es tan importante lo que cuenta en sus libros como lo que se
calla. En parte, sus numerosas cartas completan estas lagunas. A pesar de todo,
a veces nos encontramos con temas que no desarrolla por prudencia. Y así
advierte a sus destinatarios: «No es para carta..., se lo diré cuando nos
veamos, porque no son cosas para escribirlas».
Afortunadamente, varios de sus colaboradores
más directos, como Jerónimo de la Madre de Dios (Gracián), Julián de Ávila, Ana
de Jesús (Lobera), Ana de san Bartolomé (García), María de san José
(Salazar)... siguiendo su ejemplo, pusieron por escrito sus relaciones con
santa Teresa, los recuerdos de los viajes y fundaciones de casas que
compartieron, así como las enseñanzas que de ella recibieron. Todos estos
libros son un precioso complemento a los escritos de la Santa.
Tiempos «recios»
En el siglo XVI, el mundo de la enseñanza
estaba reservado exclusivamente a los «letrados»; es decir, a los que tenían
estudios reconocidos. La misma predicación no estaba abierta a todos los
sacerdotes, sino solo a los que tenían unas licencias específicas, una
delegación del obispo para hacerlo.
San Ignacio de Loyola cuenta en su Autobiografía que, después de su
conversión, le gustaba hablar de Dios a la gente, a la que animaba a practicar
oración. Mientras era estudiante en Alcalá, la Inquisición le hizo proceso y el
vicario le encerró cuarenta y dos días en prisión «sin que le examinasen ni
supiese la causa [...]. Finalmente, vino a la cárcel y le examinó de muchas
cosas, hasta preguntarle si hacía guardar el sábado. Le declaró inocente pero
le ordenó que no hablase de cosas de la fe hasta que hubiese estudiado más,
pues no sabía letras» (nn. 61-62). Era tal la obsesión que había con los
cristianos nuevos, que hasta a un cristiano viejo de procedencia indudable le
preguntan si hacía guardar el sábado,
el día sagrado de los judíos. No le pueden culpar de nada, pero igualmente le prohíben
que hable de cosas de la fe, hasta que haya completado sus estudios.
De Alcalá se mudó a Salamanca, donde lo
vuelven a encarcelar por los mismos motivos, esta vez encadenado. Allí «fue
llamado delante de cuatro jueces y le preguntaron muchas cosas sobre la
Trinidad y la Eucaristía y cosas de cánones [...], y a los veintidós días que
estaba preso le llamaron para oír la sentencia, la cual era que no se hallaba
ningún error ni en su vida ni en su doctrina, y así podía enseñar la doctrina y
hablar cosas de Dios, con tal que nunca definiese lo que es pecado mortal ni
venial, sino después de cuatro años de estudios más» (nn. 68-70). Esta vez son
más benévolos: le permiten enseñar el catecismo (la «doctrina») y hablar cosas
de Dios, aunque no debe especificar qué materia puede ser considerada pecado
mortal y cuál pecado venial, hasta
después de cuatro años más de estudios. No bastaba que su doctrina fuera
recta; necesitaba el aval de los estudios. En París y Venecia se repetirán
procesos similares. Y eso que él era varón, noble y estudiante de Teología.
Imaginémonos ahora las dificultades de Teresa,
que era una persona de orígenes familiares oscuros, con antepasados (padre,
tíos y abuelo) que habían sido condenados por judaizar, que no tenía estudios
universitarios, ¡y mujer!; pero que pretendía hablar y escribir sobre temas de
oración para transmitir a otros los frutos de su experiencia.
Las mujeres no tenían acceso a los estudios
reglados, incluso estaba mal visto que supieran leer. La posibilidad de que
alguna se atreviera a convertirse en maestra por medio de la palabra oral o
escrita era algo absolutamente impensable. Todos repetían que la mujer es débil
por naturaleza, inclinada al mal y fácilmente manipulable por el demonio, por
lo que se debía sospechar de ella. La mayoría estaba convencida de que debía
permanecer siempre bajo la tutela de algún varón. Para ello se citaban tres
autoridades, principalmente. En primer lugar, el libro del Génesis, que dice
que ella fue la engañada por el demonio en el momento del pecado original. En
segundo lugar, san Pablo, que pide que se sometan a sus maridos y que callen en
la Iglesia. Por último, santo Tomás que, siguiendo a Aristóteles, consideraba a
la mujer un varón incompleto. Todo esto lo conocía Teresa y se rebeló contra
esa situación, aunque era plenamente consciente del peligro que corría; por eso
recoge estos tópicos en sus escritos con aparente
sumisión.
En realidad, la mujer casi era considerada
como un objeto, siempre sometida a la tutela del padre, del esposo o de los
hijos varones. Sus funciones se reducían a ordenar el trabajo doméstico,
perpetuar la especie y satisfacer los impulsos sexuales de su marido, a cuyo
arbitrio se encontraban sometidas. Fray Luis de León, por ejemplo, ya desde el
prólogo de su famosa obra La perfecta
casada afirma que la misión de la mujer es «servir al marido, y gobernar la
familia, y la crianza de los hijos». Y explicando los servicios y atenciones
que debe tener hacia su esposo, aclara: «No es gracia y generosidad este
negocio, sino justicia y deuda que la mujer debe al marido, y que su naturaleza
cargó sobre ella, criándola para este oficio, que es agradar y servir, y
alegrar y ayudar en los trabajos de la vida y en la conservación de la hacienda
a aquel con quien se desposa […]. Que como él está obligado a llevar las
pesadumbres de fuera, así ella le debe sufrir y solazar cuando viene a su casa,
sin que ninguna excusa la desobligue» (cap. IV).
Por esos mismos años, un escribano real,
Miguel Pérez de las Navas, pensaba que su esposa lo engañaba con otro. No pudo
encontrar ninguna justificación de su sospecha, pero decidió igualmente acabar
con ella para evitar la deshonra. Esperó a que su mujer se confesara el Jueves
Santo, para asegurarse de que la enviaba directamente al cielo. Ese mismo día
le dio garrote vil en su propia casa. Algo similar vemos en El médico de su honra, de Calderón de la
Barca. El protagonista, que sospecha injustamente de su mujer, obliga al médico
a sangrarla hasta morir. Nadie pidió cuentas a estos esposos por haber dado
muerte a sus esposas. Al fin y al cabo, les
pertenecían y ellos decidían qué hacer con sus posesiones.
La misma Teresa, al contar la historia de la
fundadora del convento de Alba de Tormes, dice que al nacer estuvo a punto de
morir porque fue abandonada por sus padres y familiares, que no le ofrecieron
alimentos ni otros cuidados solo porque era una niña. Y añade: «Pues
habiendo ya tenido cuatro hijas, cuando vino a nacer Teresa de Layz, dio mucha
pena a sus padres de ver que también era hija. Cosa cierto mucho para llorar
que, sin entender los mortales lo que les está mejor, como los que del todo
ignoran los juicios de Dios, no sabiendo los grandes bienes que puede venir de
las hijas ni los grandes males de los hijos, no parece que quieren dejar al que
todo lo entiende y los cría, sino que se matan por lo que se habían de alegrar»
(F 20,3).
Mujer «barbada»
No deja de ser significativo que, cuando
algunos contemporáneos de santa Teresa quieran alabarla digan que «no parece
mujer» o que «tiene ánimos de varón». Ella misma lo reconoce así y recoge el
parecer de los que dicen que su ánimo es más grande que el de las mujeres (cf.
V 8,7). Nos puede ilustrar lo que le sucedió al P. Juan de Salinas, provincial
de los dominicos, que llamó la atención al P. Domingo Báñez, porque había
escuchado que era amigo de Teresa, previniéndole de la excesiva confianza con
mujeres, «cuyas virtudes hay que tener siempre por sospechosas». El P. Báñez le
dijo que, ya que él iba a predicar la cuaresma en Toledo y ella estaba allí,
aprovechara para conocerla personalmente y así podría comprender su aprecio por
ella. Al regreso, Salinas reprochó a Báñez: «¡Me habías engañado! Me dijiste
que era mujer y a fe mía que es varón ¡y de los muy barbados!».
A pesar de los prejuicios antifeministas de su
época, la vida y los escritos de Teresa son una defensa a ultranza del derecho
de la mujer a pensar por sí misma y a tomar decisiones: no quiere que nadie se
entrometa en la vida cotidiana de sus monjas. Hubo de realizar muchos esfuerzos
para que ellas pudieran autogestionarse, para que tuvieran libertad de elegir
confesores y consejeros, y no estuvieran sometidas en todo a los varones; algo
inconcebible en su época.
Lo vemos de una manera especial en su
correspondencia de los últimos años: «Esto es lo que temen mis monjas: que han
de venir algunos prelados pesados que las abrumen y carguen mucho» (Cta 145,1);
«en que perpetuamente no sean vicarios de las monjas los confesores pongo mucho
[...]. Es también necesario que tampoco estén sujetas a los priores [...]. Nuestras
Constituciones no es menester tratarlo en capítulo de frailes ni que lo
entiendan ellos» (Cta 359,1ss); «en nuestras cosas no hay que dar parte a los
frailes» (Cta 360,4).
Hoy nos resulta absurdo que en una sociedad
que se decía cristiana se prohibiera el acceso a la Biblia de las personas
iletradas en general y de las mujeres en particular. Pero era así. Teresa alza
la voz contra esa situación, lo que no impidió que su Comentario al Cantar de los Cantares fuera quemado. Con mucho
cuidado, pero con fuerza, compara a los que ven peligro en la lectura de la
biblia con animales venenosos que todo lo que tocan lo transforman en veneno:
«He oído a algunas personas que huían de oírlas [las cosas que dice el Cantar de los Cantares]. ¡Oh, válgame
Dios, qué gran miseria es la nuestra! Que como las cosas ponzoñosas, que cuanto
comen se vuelve en ponzoña, así nos acaece, que de mercedes tan grandes como
nos hace el Señor en darnos a entender lo que tiene el alma que le ama y
animarla para que pueda hablar y regalarse con su Majestad, hemos de sacar
miedos» (MC 1,3).
Por su parte, ella siempre conservó su afecto
por la lectura de aquellos pocos textos de la Sagrada Escritura que podía
encontrar traducidos, especialmente por los evangelios: «Yo he sido siempre
aficionada y me han recogido más las palabras de los evangelios, que salieron
por aquella sacratísima boca, que los libros muy concertados» (CE 35,4).
También estaba convencida de que en la Biblia se encuentra lo que necesitamos
saber para vivir como cristianos y para poder llegar a la plenitud mística, por
lo que usa muchas de sus imágenes para explicar sus ideas. Solo se lamenta de
no conocerla mejor: «¡Oh, Jesús, quién supiera las muchas cosas de la Escritura
que debe haber para dar a entender [estas cosas de oración]!» (7M 3,13).
Lo mismo que con la lectura de la Biblia,
sucedía con la práctica de la oración personal (es decir, la meditación, la
reflexión, la vida interior). Aunque hoy nos resulte incomprensible, entonces
era un campo vedado para las mujeres. Teresa hubo de enfrentarse continuamente
a los que afirmaban que «la oración mental no es para mujeres, que les vienen
ilusiones; mejor será que hilen; no han menester esas delicadezas; bástalas el Pater Noster y el Ave María...» (CE 35,2).
Contra el parecer mayoritario, ella afirma
que, en el campo de la oración, las mujeres llegan a ser mejores que los
varones: «Hay muchas más mujeres que hombres a quienes el Señor hace estas
mercedes, y esto oí al santo fray Pedro de Alcántara (y también lo he visto
yo), que decía que aprovechaban mucho más que los hombres en este camino, y
daba de ello excelentes razones, que no hay para qué decirlas aquí, todas a
favor de las mujeres» (V 40,8). Y avisa a sus monjas para que huyan como del
mismo demonio de aquellos que pretendan convencerlas de lo contrario.
De la rueca a la pluma
Teresa era plenamente consciente de la
situación de inferioridad en que se encontraba y necesitó utilizar
continuamente sus dotes persuasivas para que sus obras (y ella misma) no
acabaran en la hoguera. En todos sus libros insiste en que ella debería ocupar
su tiempo en hilar en la rueca, que era lo que la sociedad contemporánea
esperaba de una mujer. Y añade que si escribe es «por obediencia» a sus
confesores o, al menos, «con su licencia».
A pesar de todo, en ocasiones manifiesta su
deseo de escribir, consciente de que tiene algo valioso que decir: «Al obispo
envié a pedir el Libro de la Vida,
porque quizá se me antojará de acabarle con lo que después me ha dado el Señor,
que podría escribir otro más grande» (Cta 174,26). Tampoco es raro encontrar
comentarios suyos como: «Da avisos importantes» o «contiene muy buena doctrina»
en los títulos de los capítulos. El último capítulo del Libro de La Vida, por ejemplo, se titula así: «Prosigue en la misma
materia de decir las grandes mercedes que el Señor le ha hecho. De algunas se
puede tomar harto buena doctrina, que este
ha sido, según ha dicho, su principal intento, después de obedecer». Aquí dice
claramente que su principal intento
al ponerse a escribir es enseñar una doctrina que ella posee y que considera
«harto buena».
Son bien conocidos sus esfuerzos para publicar
el Camino de Perfección ante la
desconfianza que tenía sobre la fidelidad de las numerosas copias que se iban
sacando de sus manuscritos. Ella era consciente de que esa obra (y las demás)
podía ayudar mucho a sus lectores, pero no atreviéndose a alabarlas
directamente, a veces recoge las palabras de otros, como cuando afirma en el
prólogo del Castillo Interior que
intentará volver a escribir cosas que ya había escrito y que habían gustado a
quienes las habían leído, aunque ahora estaban perdidas (no podía decir
directamente que estaban en manos de la Inquisición y que habían hecho mal en
requisarlas, porque la doctrina era buena, pero lo da a entender): «Me holgaría
de atinar en algunas cosas que decían que estaban bien dichas».
Muchos autores siguen insistiendo en que
Teresa no escribió por propia iniciativa, sino «por obediencia», pero la
realidad es totalmente distinta: ella tuvo que sortear las mil dificultades que
se esgrimían en su época para que una mujer se dedicara a la escritura, por eso
desarrolló una retórica de la sumisión, que hay que tener muy presente si
queremos entenderla.
Teresa sabía que necesitaba la aprobación de
los letrados, aquellos varones que tenían autoridad para determinar la
ortodoxia o heterodoxia de sus escritos. De su aprobación o su rechazo dependía
que ella pudiera darlos a leer a otros o no, que pudiera influir en sus
lectores, transmitiéndoles sus ideas o que sus intuiciones murieran con ella.
De aquí brota su continuo andar de unos a otros, buscando siempre los más
afines ideológicamente, pidiéndoles que lean y revisen sus obras, aceptando
pulir sus expresiones o incluso reescribir tratados enteros cuando ellos se lo
piden. Ante la necesidad de pasar la censura, siempre se somete a su parecer y acepta
sus correcciones. Ella sabía que era mejor un escrito mutilado que un texto
prohibido.
Para ganar la benevolencia de los censores, a
cada paso intenta justificar su actividad, presentándose como inofensiva,
confesando que acepta los tópicos sobre la inferioridad de la mujer (aunque a
renglón seguido afirme lo contrario), insistiendo en que «me lo han mandado
mucho... en todo me sujeto al parecer de los que saben más que yo… mucho me
cuesta emplearme en escribir, cuando debería ocuparme en hilar... de esto
deberían ocuparse otros más entendidos y no yo, que soy mujer flaca y ruin...
como no tengo letras, podrá ser que me equivoque... escribo para mujeres que no
entienden otros libros más complicados...» y cosas similares.
A pesar de todos sus esfuerzos, en los
márgenes de sus escritos podemos encontrar anotaciones de los censores como esta:
«Parece que reprende a los inquisidores que quitan libros de oración». Y
tacharon con tal furia un desahogo de su corazón, que no se ha podido leer
hasta tiempos bien recientes, ayudados por los rayos x, y aún hoy algunas
líneas no se pueden descifrar: «Señor de mi alma, cuando andabais por el mundo no
aborrecisteis a las mujeres. Antes las favorecisteis siempre con mucha piedad y
hallasteis en ellas tanto amor y más fe que en los hombres [...]. Que no
hagamos cosa que valga nada por vos en público, ni osemos hablar algunas
verdades que lloramos en secreto, sino que no nos habíais de oír petición tan
justa. No lo creo yo, Señor, de vuestra bondad y justicia, que sois juez justo
y no como los jueces del mundo, que –como son hijos de Adán y, en fin, todos
varones– no hay virtud de mujer que no tengan por sospechosa [...]. Que no es
razón desechar ánimos virtuosos y fuertes, aunque sean de mujeres» (CE 4,1).
Estremece todavía hoy este testimonio personal
de que las mujeres estaban acorraladas y debían llorar en secreto lo que no
podían decir en público. Con todo, sus lúcidas precauciones fueron útiles y
consiguieron preservar la mayoría de sus escritos hasta el presente.
Se añade a lo anterior la dificultad de
escribir sobre temas interiores, para los que no sirven «los términos vulgares
y usados», según dice san Juan de la Cruz (C prólogo, 1). Los primeros escritos
de Teresa suponen un tremendo esfuerzo para hacer luz en sus experiencias
místicas, como ella misma confiesa: «Yo estuve muchos años que leía muchas
cosas y no entendía nada de ellas; y mucho tiempo que, aunque me lo daba Dios,
no sabía decir ni una palabra para darlo a entender, que no me ha costado esto
poco trabajo» (V 12,6).
Su creatividad literaria
Para hacerse entender, comienza subrayando en
libros de otros autores lo que se parece a lo que ella está viviendo. De ahí
pasa a escribir breves Relaciones, que
entrega a sus confesores y a personas letradas en busca de consejo. Más tarde
elaborará una relación más pormenorizada, que después de varias redacciones dio
lugar al Libro de la Vida, en el que
todavía no domina todos los recursos del lenguaje para darse a entender: «Sentí
en mi espíritu un no sé qué […], ni yo sabré decir cómo fue, ni por
comparaciones podría» (V 33,9). En otra ocasión, añade:
«Deshaciéndome estoy, hermanas, para daros a entender esta operación de amor y
no sé cómo» (6M 2,3).
Precisamente esta incapacidad para comunicar
sus experiencias, le hizo seguir leyendo toda su vida, para buscar palabras con
las que explicarse y explicar a los otros lo que estaba viviendo. Cuando no las
encuentra, opta por usar comparaciones o inventar imágenes novedosas que a ella
le parecen «desatinos santos» (V 16,4).
Con el discurrir de los acontecimientos, las
lecturas, las consultas a personas «letradas» y la práctica, Teresa adquiere una fluidez
cada vez mayor y se enfrenta a obras cada vez más complejas, con clara
intención docente. Tanto sus escritos históricos y autobiográficos (Cuentas de Conciencia, Libro de la Vida, Fundaciones), como sus tratados espirituales (Camino de Perfección, el
Castillo Interior, Meditaciones sobre
los Cantares) y legislativos (Constituciones,
Modo de visitar los conventos) intentan
ser un acompañamiento para orantes, una guía en la conquista del propio mundo
interior o sobrenatural, en lo que Teresa de Jesús llegó a ser una gran
doctora, plenamente consciente de que en ese campo tenía una palabra que decir,
avalada por su propia experiencia: «Son tan dificultosas de decir estas cosas
interiores del espíritu que pasan con tanta rapidez [...]. Hablo de cosas
sobrenaturales, que son las que no se pueden adquirir con el propio esfuerzo ni
diligencia, aunque mucho se procure» (CC 54, 1-3).
Así, pues, al principio Teresa tuvo que luchar
con el lenguaje, con la falta de palabras adecuadas para hablar de su
experiencia sobrenatural; y durante toda su vida tuvo que enfrentarse con el
contexto social, que discriminaba a las mujeres y no las permitía escribir (y
menos aún sobre cosas interiores, siempre sospechosas de luteranismo). Precisamente
las dificultades interiores y ambientales fueron la principal causa de su
creatividad literaria. Solo si tenemos estos presupuestos claros, podemos
acercarnos a su vida y a sus obras sin malinterpretar su mensaje, como se ha
hecho muchas veces (quizás de manera inconsciente, pero no inocente).
Como no se puede
entender la Biblia si no se tienen en cuenta el contexto en el que fue escrito
cada libro (que equivale a saber «qué» preguntas concretas intenta responder el
autor) y sus géneros literarios (que
equivale a saber «cómo» las responde para que los destinatarios puedan
entender), de la misma manera no se pueden entender los escritos de santa Teresa
si no se pone atención a lo que dice, a cómo lo dice, y también a lo que ella
no dice, pero podemos adivinar leyendo sus cartas y otros testimonios
contemporáneos.
Hoy ya no se
pueden seguir afirmando las mismas cosas que en años pasados, cuando no se
disponía de estudios serios sobre el contexto histórico y la personalidad de
santa Teresa. Por ejemplo, en la introducción al libro del Castillo Interior, hablando de la reacción de la Santa a la orden
de escribirlo que le dio el P. Gracián, dice un autor: «Ante esta petición, que
ciertamente ella no se esperaba, la Santa se sintió consternada y suplicó con
insistencia al P. Gracián que le retirara esa orden, que la dejara hilar su
rueca y seguir los actos de comunidad con las demás hermanas. Pero el superior
no cedió [...]. Mientras la Santa estaba pensando cómo empezar ese trabajo,
Dios vino en su ayuda con una espléndida visión. Hacía tiempo que la Santa
quería ver un alma en gracia, y el Señor, que dispone las cosas con suavidad y
sabiduría, escuchó los deseos de su sierva» (Egidio di Gesù, Prefazione al Castello
Interiore, ed. OCD). Este autor continúa diciendo que escribió el libro en éxtasis e incluso que el folio se
llenaba él solo de palabras mientras ella se encontraba en oración. (Es verdad
que la primera edición es de 1950, pero es la que se conserva hasta el presente
en italiano y ha sido reeditada en 2010 con la misma introducción).
La poesía como cauce de expresión
Para hacerse
entender, usa imágenes y comparaciones, aunque siempre insiste en la
incapacidad del lenguaje ordinario para verbalizar las experiencias más
profundas: «El alma entiende muy bien que es llamada de Dios, y tan entendido,
que algunas veces la hace estremecer y aun quejar. Siente que es herida
sabrosísimamente, más no atina cómo ni quién la hirió. Se queja a su Esposo con
palabras de amor, que no puede hacer otra cosa, porque entiende que él está
presente [...]. Estoy deshaciéndome por daros a entender esta operación de
amor, y no sé cómo; porque parece contradictorio entender que el Amado está
claramente con el alma y parece que al mismo tiempo la llama con una señal tan
cierta que no se puede dudar...» (6M 2,2).
Por eso
intenta expresar con versos las experiencias que no puede contar de otra
manera. En principio, ella no se sentía poeta. Sus primeros poemas surgen de
una incontenible experiencia mística que busca cauces para comunicarse y
descubre que el lenguaje ordinario es insuficiente. Hablando de sí misma en
tercera persona, dice: «¡Válgame Dios, cómo está un alma en este estado! Toda
ella querría ser lenguas para alabar al Señor. Dice mil desatinos santos. Yo sé
de una persona que, con no ser poeta, le acaecía hacer de pronto coplas muy
sentidas declarando bien su pena, no hechas de su entendimiento, sino que para más
gozar la gloria que tan sabrosa pena le daba, se quejaba de ella a su Dios» (V
16,4).
De su primer
poema en concreto, ella misma refiere que lo compuso en 1557, estando en
oración, en casa de Dª Guiomar de Ulloa y que le brotó de una manera espontánea
(Cta 167,36), aunque al transcribirlo no lo recuerda entero. Lo que escribió en
aquella ocasión es lo que se ha conservado hasta el presente. Dice así:
«¡Oh, Hermosura que excedéis
a todas las hermosuras!
Sin herir dolor hacéis
y sin dolor deshacéis
el amor de las criaturas.
¡Oh, nudo que así juntáis
dos cosas tan desiguales!
No sé por qué os desatáis,
pues atado fuerza dais
a tener por bien los males.
Juntáis quien no tiene ser
con el ser que no se acaba;
sin acabar, acabáis;
sin tener que amar, amáis,
engrandecéis nuestra nada» (P 3).
Al menos a
partir de este momento (de antes no tenemos constancia), la poesía y el canto
(coplas, villancicos, cantarcillos) serán para ella importantes medios para
expresar sus sentimientos. Algunos poemas tendrán el mismo origen que el
anterior, otros los compondrá adaptándose a músicas previas, para ser cantados
y bailados en la recreación de las monjas. Incluso varios tendrán forma
dialogada, para ser interpretados por varias solistas alternándose con el coro.
Los recoge en sus cartas, los envía como regalo a sus amistades, comenta los
que componen otras personas y los intercambia: «No sé qué le envíe, si no es
estos villancicos que hice yo. […] Tienen graciosa tonada» (Cta 163,23); «Las
poesías también vengan» (Cta 395,18), etc. Desde entonces, en el Carmelo quedó
la costumbre de realizar e interpretar composiciones piadosas en las fiestas
conventuales.
Cuando en
1560 experimenta por primera vez la transverberación, siente que su amor era
tan intenso, que le parecía como si un ángel le clavara un dardo de fuego en el
corazón y le arrancara las entrañas, dejándola abrasada de amor: «Creciendo en
mí un amor tan grande de Dios, que no sabía quién me lo ponía [...]. Me veía
morir con deseo de ver a Dios» (V 29,8). A pesar de las muchas veces que este
episodio ha sido representado en el arte, especialmente en la famosa escultura
de Bernini en la iglesia de Santa María de la Victoria de Roma, ella misma
explica que no se trata de un ángel real, ni tampoco es real el dardo ni el
fuego, sino que son las imágenes sensibles con las que ella narra
acontecimientos inefables: «Es una manera de herida que parece al alma como si
la metiesen por el corazón una saeta. Así causa un dolor tan grande, que la
hace quejarse; y tan sabroso, que no querría que le faltase nunca. Este dolor
no es en el sentido, ni tampoco es llaga material, sino en lo interior del
alma» (CC 54,14).
A la hora de
servirse de la imagen del ángel con el dardo para explicar esa altísima
experiencia del amor de Dios, seguramente influyó en Teresa el haber visto
muchas veces representado el amor como Cupido, un pequeño ángel que dispara sus
saetas, así como las poesías amatorias de la época, que presentaban al amado
como un cazador y a la amada como una cierva vulnerada, que solo puede
encontrar descanso en aquel que la hirió con los dardos de su amor. Ella misma
se sirvió de este trasfondo para cantar lo que había vivido:
«Ya toda me entregué y di
y de tal suerte he trocado
que mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado.
Cuando el dulce Cazador
me tiró y dejó rendida,
en los brazos del amor
mi alma quedó caída.
Y, cobrando nueva vida,
de tal manera he trocado,
que mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado.
Hirióme con una flecha
enherbolada de amor
y mi alma quedó hecha
una con su Criador.
Yo ya no quiero otro amor,
pues a mi Dios me he entregado,
y mi Amado es para mí
y yo soy para mi Amado» (P 1).
Aunque ella
procuraba pasar desapercibida y solo comentaba estas experiencias íntimas con
el confesor, a medida que se multiplicaban sus gracias místicas, crecieron las
habladurías e incomprensiones en la ciudad, por lo que de nuevo hizo uso de la
poesía para intentar explicar lo que sentía:
«¡Cuán triste es, Dios mío,
la vida sin ti!
Ansiosa de verte
deseo morir.
Carrera muy larga
es la de este suelo,
morada penosa,
muy duro destierro.
¡Oh, Dueño adorado
sácame de aquí;
ansiosa de verte
deseo morir...» (P 6).
Si la poesía le sirve para expresar sus ansias
del cielo («Vivo sin vivir en mí / y tan alta vida espero / que muero porque no
muero…»), también se vale de ella para confesar que solo quiere lo que Dios
quiera y que está dispuesta a permanecer sobre la tierra hasta el fin del mundo
si con sus trabajos puede salvar una sola alma («Vuestra soy, para vos nací, /
¿qué mandáis hacer de mí?)».
5. Teresa fundadora
Con veinte años, Teresa se hizo monja
carmelita. No tenía muchas alternativas. O someterse a un marido hasta morir de
sobreparto, como muchas de sus contemporáneas –incluida su propia madre– o
meterse monja. En sus escritos reflexiona sobre las obligaciones de una mujer
bien casada, que tiene que someterse en todo a su marido y en los sufrimientos
de las que lo tienen celoso, comparándolo con la libertad de las esposas de
Cristo (cf. CE 38,1). Ella misma reconoce que, al decidirse por la segunda
opción, no lo hacía por motivos sobrenaturales totalmente claros: «Más me
parece me movía un temor servil, que no amor» (V 3,6). Incluso se decide por
las carmelitas porque allí estaba su gran amiga Juana Juárez: «Miraba yo más
mis gustos y mi vanidad que lo que fuera mejor para mi alma». Pero Dios sabe
escribir derecho con renglones torcidos.
La vida en la Encarnación
Cuando Teresa se hace carmelita, el monasterio
de la Encarnación era un edificio nuevo, aún no terminado. El primitivo
beaterio de 1478 se convirtió formalmente en monasterio hacia 1500. Desde
entonces había conocido distintas ubicaciones hasta que se pudo decir la
primera misa en el actual emplazamiento el 4 de abril de 1515, el mismo día en
que ella fue bautizada. El grupo inicial de 14 religiosas no había parado de
crecer, llegando a 120 en 1540, a 165 en 1545 y a 200 pocos años después. Los
gastos ocasionados por la construcción de nuevas celdas y locutorios retrasaban
la finalización de la Iglesia y endeudaban progresivamente a la comunidad.
La estructura de este y de cualquier otro
monasterio de la época era un reflejo de la sociedad contemporánea, y difería
mucho de la que podemos encontrar hoy en las comunidades religiosas. La
comunidad estaba compuesta por una pequeña minoría de monjas sinceramente
vocacionadas, que querían entregarse por completo al servicio del Señor. Entre
ellas había algunas ejemplares, e incluso santas. Al mismo tiempo, como no se
aceptaba que una mujer pudiera permanecer soltera y la mayoría de los varones
jóvenes estaban enrolados en el ejército o en América, los monasterios se
convertían en residencias de hijas de buena familia a quienes sus padres no
habían conseguido un marido conforme a su condición, así como de niñas y
adolescentes, hijas rebeldes, viudas piadosas y, en el caso de los conventos
más poderosos, miembros de las grandes familias, que se servían de los bienes y
posesiones del monasterio para acrecentar su patrimonio e influencia social. De
todas formas, como cada monasterio era jurídicamente independiente (incluso los
pertenecientes a una misma familia religiosa), algunas cosas podían cambiar de
uno a otro.
En el caso de la Encarnación, aparte de las
niñas o mujeres seglares acogidas, había tres tipos de monjas:
- Las religiosas que podían aportar una dote y sabían leer eran «de velo negro», estaban obligadas al rezo de las Horas canónicas en el coro y tenían voz y voto en los capítulos conventuales.
- Aquellas que no podían aportar una dote eran «de velo blanco» y se dedicaban a las tareas domésticas, sin tener obligación del rezo coral (que se cambiaba por un número determinado de «padrenuestros») y sin poder participar en las reuniones en que se tomaban las decisiones conventuales. Eran llamadas «legas» o «freilas». Estas últimas y las criadas tenían dormitorios y comedores comunes, donde muchas veces faltaba lo esencial.
- Las «doñas» que se lo podían pagar tenían amplias habitaciones con cocina propia, despensa, oratorio, recibidor y alcoba (es el caso de Teresa). Además, podían llevar consigo vestidos, joyas, familiares y siervas que les limpiaran la habitación y prepararan sus comidas e incluso perros y otros animales de compañía. Conservaban sus apellidos y los títulos y privilegios sociales de sus familias de proveniencia y estaban exentas del rezo en común, así como de otras obligaciones.
El monasterio se veía imposibilitado para
alimentar a todas las monjas y para cuidar de todas las enfermas, por lo que
muchas pasaban temporadas más o menos largas en las casas de sus padres o de
otros parientes o bienhechores. Cuando ingresa Teresa hay unas 50 religiosas en
esta situación. Más tarde, también ella residirá largos periodos fuera del
monasterio.
Además de estos tres tipos de religiosas («de
coro», «legas» y «doñas») y de las niñas y doncellas internas, en las
propiedades del monasterio había casas para los hortelanos, el administrador de
las rentas y los demás criados que cuidaban de las cuadras, gallinero y
pajares, pastoreaban los rebaños, recogían los alquileres de las propiedades
que el monasterio tenía en varios pueblos (frutos de dotes de algunas monjas o
de herencias de seglares a cambio de ser enterrados en la iglesia y de
determinados sufragios por sus almas), llevaban el grano a los molinos y la
harina al horno, etc. La comunidad también tenía contratados capellanes y
confesores, médico, cirujano, notario, procurador y letrado. Por eso, la
Encarnación se parecía más a una pequeña ciudad que a lo que hoy identificamos
con un convento. Allí había mujeres de todas las condiciones sociales, tanto
entre las monjas como entre las seglares.
Como es natural, entre las que eran obligadas
a permanecer en el convento por sus familias, había muchas desmotivadas. De
ellas escribirá Santa Teresa que «están con más peligro que en el mundo» y que
«es preferible casarlas muy bajamente que meterlas en monasterios». También
describe algunas costumbres en las que ella nunca participó, pero que eran muy
comunes entre estas mujeres sin vocación: «Tomar yo libertad ni hacer cosa sin
licencia, digo por agujeros o paredes o de noche, nunca hice».
Ya hemos dicho que Teresa se hace monja sin
una clara conciencia vocacional: «Aunque no acababa mi voluntad de inclinarse a
ser monja, vi que era el estado mejor y más seguro; y así poco a poco me
determiné a forzarme para tomarle» (V 3,5). Sin embargo, las lecturas piadosas,
el buen ejemplo de algunas hermanas y su carácter generoso, la fueron llevando
a tomar muy en serio su vida. En el monasterio encontró una paz y una alegría
que la embargaban. Se sentía tan a gusto que no echaba de menos sus anteriores
ocupaciones: «Andaba algunas veces barriendo en horas que yo solía ocupar en mi
regalo y gala» (V 4,2).
La joven monja se entrega con entusiasmo a las
prácticas religiosas: confesiones frecuentes, oración en el coro, servicios a
las hermanas, realización de oficios humildes, ayunos y penitencias. En este
último campo no tenía quien la guiara por los caminos de la moderación y su
impetuosidad la llevó a extremos exagerados, que más tarde condenará en sus
obras. Una testigo dirá: «Hacía tan grandes y extraordinarias penitencias, que
la disminuyeron la salud». Efectivamente, los excesos estuvieron a punto de
acabar con ella: «Me comenzaron a crecer los desmayos y me dio un mal de
corazón tan grandísimo, que ponía espanto, y otros muchos males juntos [...]
que me privaban del sentido muchas veces» (V 4,4). Todos sabemos que los
cuidados de una curandera de Becedas casi la matan y que posteriormente sanó
por intercesión de san José.
En la Encarnación pasó 27 años dedicada a los
rezos comunitarios, la lectura espiritual, la oración personal en su oratorio
privado, los cuidados a las enfermas de la casa, la atención a las numerosas
personas que solicitaban su compañía en el locutorio y el cuidado de su hermana pequeña (que
compartirá su celda durante 10 años desde la muerte de su padre hasta su
matrimonio, como lo harán más tarde otras dos parientes más). Los testimonios
de la época hablan de la generosidad y de la piedad de la hermana Teresa, así
como de su simpatía y de la llaneza de su trato. Muchos la consideraban una
religiosa ejemplar. Ella, sin embargo, no terminaba de estar contenta, se
encontraba dividida: «Por una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía al
mundo. Me daban gran contento todas las cosas de Dios, me tenían atada las del
mundo. Paréceme quería concertar estos dos contrarios» (V 7,17). Finalmente,
Dios la venció totalmente. Al respecto, exclama: «Con grandes regalos
castigabais mis delitos» y «antes me cansé yo de ofenderos que vos de
perdonarme».
San José de Ávila
Un atardecer de septiembre de 1560, en la
celda de Dª Teresa se encontraban reunidas dos sobrinas suyas, a las que ella
criaba allí, y otras diez religiosas amigas, comentando una carta circular que
había hecho llegar el rey Felipe II a todos los monasterios, en la que exponía
los daños causados por los luteranos en Francia y en el resto de Europa, y pedía
oraciones por la unidad de la Iglesia. Comenzaron a tratar del gran bien que
hace la oración de los buenos religiosos, de los ermitaños antiguos del Monte
Carmelo, de fray Pedro de Alcántara y de las descalzas reales, que él había
reformado, de lo hermoso que sería vivir en una comunidad así... Su sobrina
María de Ocampo aseguró que, si se hacía, aportaría mil ducados y Dª Guiomar,
que se había unido al grupo, también prometió su ayuda. Teresa no estaba muy
convencida, hasta que pocos días después sintió al comulgar que Cristo «me
mandó mucho que lo procurase, haciéndome grandes promesas de que no se dejaría
de hacer el monasterio» (V 32,11).
Comienzan dos años de luchas continuas. Sus
conocidos (especialmente el confesor) dicen que es una locura. Ella quiere
pareceres autorizados, por lo que escribe a san Pedro de Alcántara, a san
Francisco de Borja y a san Luis Bertrán, que responden apoyándola incondicionalmente.
El provincial de los carmelitas, también aprueba la fundación, por lo que se
decide a pedir un Breve Papal para realizarla. Cuando se conoció la noticia en
la Encarnación y en la ciudad, la mayoría se puso en contra, por lo que el provincial
retiró su apoyo (V 32,15).
La acusaban de alumbrada y endemoniada, por lo
que pidió su parecer al teólogo más renombrado en ese momento en Ávila: el
dominico P. Pedro Ibáñez, para el que escribió un largo memorial de 40 párrafos
con la situación de su espíritu, la primera Cuenta
de Conciencia que conservamos: «La manera de proceder en la oración que
ahora tengo es la presente: pocas veces son las que estando en oración puedo
tener discurso con el entendimiento, porque comienza a recogerse el alma y
estar en quietud, de tal manera que ninguna cosa puedo usar de las potencias y
sentidos [...]. Me ha venido una determinación muy grande de no ofender a Dios,
que antes moriría mil muertes que tal hiciese [...]. Con todo, aunque creo que
es Dios ciertamente, yo no haría ninguna cosa, si no le pareciese bien a quien
tiene cargo de mí [...]. Esto es lo que siento que el Señor obra en mí. Todo lo
remito al juicio de vuestra merced». La gente identificaba la perfección con la
penitencia y la renuncia. Ella no habla de esas cosas, sino de su experiencia
personal de Dios: de la oración y de la práctica de las virtudes. A pesar de la
oposición de la ciudad y las presiones que recibe el dominico, su parecer será
positivo y lo acompañó con un dictamen laudatorio, escrito en 33 puntos.
Reconfortada, se decide a pedir un segundo
Breve Papal; esta vez poniendo el monasterio bajo la obediencia del obispo, ya
que el anterior permitía fundarlo bajo la obediencia del provincial de los carmelitas,
que ahora no lo acepta. Como el obispo tampoco estaba dispuesto a tomar el
monasterio bajo su obediencia, san Pedro de Alcántara le escribe una preciosa
carta solicitándoselo: «Una persona muy espiritual, con verdadero celo, desde
hace tiempo pretende fundar un monasterio religiosísimo en ese lugar. […] Por
amor de Nuestro Señor, pido a vuestra señoría que lo ampare y reciba».
Don Álvaro de Mendoza no se dejó impresionar y
volvió a manifestar su negativa. Finalmente, san Pedro de Alcántara se dirigió
a la residencia de descanso del obispo en el Tiemblo, pero no pudo arrancarle
una respuesta positiva. Todo lo que consiguió fue la promesa de que cuando
volviera a Ávila iría personalmente a conocer a la monja de la que tanto había
oído hablar para escuchar sus razones. Así cuenta el encuentro el secretario
del obispo, D. Juan Carrillo: «Fray Pedro de Alcántara le llevó al monasterio
de la Encarnación, donde estaba la madre Teresa de Jesús, para que tratase con
ella el negocio de la fundación; y la tarde que vino el obispo de hacer esto,
este testigo le oyó decir que totalmente le había mudado Nuestro Señor, porque
hablaba en aquella mujer, y venía persuadido a que por ninguna vía dejaría de
hacer la fundación de San José». Desde ese momento, D. Álvaro se convirtió en
amigo y confidente de la Santa, llegando a ser su dirigido y a dejarle sus
bienes en herencia.
Aunque las contradicciones externas crecieron,
hizo venir de Alba a su hermana Juana y a su cuñado, para que se encargasen de
las obras de adaptación de una casita en un barrio popular fuera de las
murallas (V 33,4ss). Las obras se alargan porque unos muros ceden, cayendo
sobre uno de los sobrinos de Teresa, que quedó como muerto. Al enterarse, fue
corriendo a la obra y tomó del suelo el cuerpecito, abrazándose a él. El niño
se despertó y Teresa se lo entregó a su madre. Los obreros comenzaron a decir
que era un milagro. Ella les respondió que lo que habría sido un milagro es que
el muro hubiera permanecido en pie, estando tan mal construido, y que tenían
que volver a levantarlo. Los dineros faltaban, pero supuso una gran ayuda la
inesperada llegada de algunas monedas de oro, enviadas desde América por su
hermano Lorenzo (Cta 2,1-2).
Ella se encarga personalmente de terminar las
obras de acondicionamiento: «Acomodó una pieza pequeñita para iglesia, con una
rejita pequeña de madera doblada y bien espesa, por donde viesen las monjas
misa, y un zaguán pequeñito por donde se entraba a la iglesia y a la casa, que
todo, en pequeño y pobre, representaba el portal de Belén». No sin nuevos
trabajos, se superan las últimas dificultades y el 24 de agosto de 1562 se
inaugura el conventico de S. José (V 36,5). Teresa tenía 47 años.
Los comienzos fueron muy difíciles. Los pocos
amigos que le quedaron se demostraron fieles en aquellos días terribles.
Francisco de Salcedo llegó a sufrir con paciencia burlas y persecuciones por
visitar y favorecer a las monjas de San José. El concejo de la ciudad convocó
una reunión para tratar el caso. Fueron citados el corregidor, 4 regidores, 2
caballeros, el provisor, 3 canónigos, los priores de 5 monasterios masculinos
acompañados de un fraile da cada Orden, 2 letrados del ayuntamiento y 2
representantes del pueblo. 25 varones reunidos para discutir sobre los proyectos
de un grupito de mujeres. Por supuesto que no fue consultada ninguna mujer que
representara a los 6 monasterios femeninos de la ciudad ni menos aún las
interesadas. En dicha reunión, el P. Domingo Báñez fue su único defensor.
Cuando todos estaban dispuestos a deshacer el nuevo convento, advirtió que no
podían, bajo pena de excomunión, ya que contaba con los oportunos permisos del
obispo y de Roma.
Como no podían deshacerlo, el ayuntamiento les
pone pleito, porque afirma que la tapia del conventillo da sombra a las fuentes
públicas. El argumento tenía poca consistencia, pero con esta y otras historias
semejantes se determinaron a presentar el pleito ante el rey, para que diera
orden de cerrar el convento. Con el tiempo se calmarán las cosas y se olvidará
el pleito, que no se cerró formalmente hasta el año 2012, en un pleno
extraordinario del ayuntamiento abulense con motivo del 450 aniversario de la
fundación de San José.
La importancia de una ciudad de la época se
medía por el número de iglesias y monasterios que tenía. Los más austeros eran
los más apreciados. Por eso es tan extraño el rechazo a la obra fundadora de
Teresa. Tenemos que ser conscientes de que no fue principalmente un motivo
económico el que lo provocó. Un monasterio cercano podía haber puesto la
objeción de que las limosnas tendrían que dividirse y que quizás no habría para
todos. Pero no es este el caso (como lo será en otras fundaciones posteriores).
La oposición no viene de uno o varios monasterios, sino de toda la ciudad, por
lo que tenemos que buscar otras causas.
Una la veremos con claridad más adelante:
hasta entonces los monasterios, iglesias, hospitales o instituciones similares
habían sido fundados siempre por hombres que compraban los terrenos, dirigían
las obras y establecían las condiciones. Y Teresa se atrevió a hacer cosas tan
serias de propia iniciativa. Además, en un contexto de miedo ante las
divisiones eclesiales provocadas por la Reforma luterana, la propuesta de
interioridad y vida sencilla de Teresa sonaba a protestantismo. La fundación de
San José se parecía demasiado a las casas de la gente normal y demasiado poco a
lo que se identificaba con un monasterio. Pienso que aquí se encuentra la
verdadera causa del rechazo inicial.
De todas formas, el Señor mismo la consuela
haciéndola oír en la oración que «esta casa es un rinconcito de Dios, paraíso
de su deleite» (V 35,12) y diciéndole que no se preocupara, «que no se
desharía» (V 36,16). Cuando la gente fue conociendo la manera de vivir de
Teresa y sus monjas, se vencieron todos los prejuicios y se aficionaron a
ellas, transformándose en bienhechores muchos de los antiguos perseguidores:
«Era mucha la devoción que el pueblo comenzó a traer con esta casa» (V 36,23).
Para ella comenzaron «los cinco años más descansados de toda mi vida» (F 1,1).
Un nuevo estilo de vida
Mientras tanto, en S. José de Ávila se recogen
los principios esenciales de la tradición carmelitana, que ella había aprendido
en la Encarnación y que nunca abandonará: la vida en obsequio de Jesucristo,
marcada por el amor a la Palabra de Dios y una fuerte dimensión orante, el
cultivo de la interioridad en el silencio, las referencias a María y al profeta
Elías, como modelos de oración y de servicio.
A la herencia carmelitana se unen armónicamente
otras intuiciones nuevas, que darán a luz lo que en el futuro será una de las
más fecundas corrientes de espiritualidad que alimentan la Iglesia. No es que
Teresa tuviera todo claro desde el principio: serán la vida y el diálogo
continuo con las hermanas de la casa los que irán marcando el camino a seguir.
Lo que tiene claro desde el principio es que
las monjas de san José se consagran por entero al servicio de Cristo. Él será
el centro y la razón de su existencia, no las cosas que hagan ni los oficios
que desempeñen. Jesús será su amigo, compañero y esposo, con el que quieren
gozarse, al que están dispuestas a consolar y por el que no les importa morir.
Se consagran a servirle y a amarle, no a la práctica de determinadas devociones
o actividades religiosas, que solo serán útiles en la medida en que favorezcan
la unión con Cristo.
Ante todo, las monjas de S. José serán un
«pequeño colegio de Cristo», compuesto por un máximo de 13 mujeres (12 y la
priora, como los apóstoles en torno al Señor, aunque más tarde ampliará el
número hasta 21). Pocas, pero firmemente vocacionadas. No admitirán presiones
externas para acoger a unas u otras, ni aceptarán personas que busquen
«remediarse», como dice ella. Las candidatas serán muy bien seleccionadas, para
que solo entren aquellas que libremente quieran adherirse a su estilo de vida y
estén capacitadas para ello. Insistía a sus hermanas en que «nunca dejen de
recibir a las que vinieren a querer ser monjas por no tener bienes de fortuna,
si los tienen de virtudes». Para ella es más importante un buen entendimiento
que un buen apellido o una buena dote.
Teresa se cambia el nombre, como signo de que
inicia una nueva vida. Ya no se llamará «Dª Teresa de Cepeda y Ahumada», sino
«Teresa de Jesús». Sus compañeras también cambian los apellidos civiles por
otros religiosos. Entre ellas no es importante la familia de proveniencia, ya
que todas se consideran iguales, hijas del mismo Padre celestial y esposas del
mismo Señor Jesús. En principio, no se admiten legas ni criadas, ni tratamientos
que indiquen la pertenencia a un estado superior, ya que se busca la vivencia
de una fraternidad intensa y sencilla. «Aquí todas se han de amar, todas se han
de querer, todas se han de ayudar», escribirá la madre Teresa, que añade que
vivirán del trabajo de sus manos y que, independientemente del cargo que
ocupen, todas se turnarán en los servicios necesarios para el mantenimiento de
la casa: cocina, limpieza, lavadero, huerta, atención a la portería... «La
tabla de barrer, que empiece por la priora».
La autoridad se ejercitará como un servicio
abnegado, avalado por la vida antes que por las leyes: «La priora procure ser
amada para ser obedecida». Procura que cada una se alimente y reciba según su
necesidad, independientemente del cargo y de la edad. Particularmente, habrá
que atender a las enfermas con la máxima solicitud, llegando a establecer en
las Constituciones: «Si es necesario, que les falte lo necesario a las sanas
para dar capricho a las enfermas».
Cuando más tarde ponga por escrito los
elementos fundamentales que deben caracterizar a las carmelitas descalzas,
antes de hablar de la oración o de las prácticas religiosas, considera que es
necesario dejar claro que el verdadero fundamento de la consagración religiosa
está en las virtudes humanas que favorecen la convivencia: la autenticidad, la
afabilidad, la educación, el agradecimiento, la laboriosidad, la higiene...
Especialmente habla de la importancia de practicar tres virtudes para poder ser
verdaderamente orantes: el amor de unas con otras, el desasimiento de todo lo
criado y la humildad, que las abraza a todas y que consiste en andar en verdad.
Para Teresa, humildad, honestidad, amor a la verdad,
conocimiento de sí… son palabras sinónimas que invitan a la naturalidad, a la
«llaneza» (para decirlo con sus palabras), a no aparentar delante de los otros,
llegando a afirmar que «es gran alivio andar con claridad». Su discípulo Juan
de la Cruz dirá que «es insufrible» el apego de algunas personas a las
ceremonias complicadas y su falta de sencillez en las cosas de la fe (3S 43,1).
Después de hablar de lo que ella denomina
«virtudes grandes», puede detenerse en todo lo referente a la oración personal
de las religiosas, a su dimensión contemplativa: serán ermitañas, con
habitaciones individuales y amplios tiempos dedicados a la soledad,
especialmente una hora de oración silenciosa por la mañana y otra por la tarde.
La oración no se entiende como meditación, esfuerzo de la inteligencia por
comprender el misterio, tal como pretenden aquellos que «llevan las cosas con
tanta razón y tan medidas por sus entendimientos, que parece que quieren
comprender con sus letras toda la grandeza de Dios». Al contrario, la oración
es un «trato de amistad», en el que se establece una relación afectuosa con
Cristo. Contra lo que puedan decir algunos letrados, «no está la cosa en pensar
mucho, sino en amar mucho».
Como es natural en personas consagradas, la
jornada estará marcada por la celebración de los sacramentos y por el rezo de
la alabanza divina. Aunque en el monasterio se viviera con gran pobreza, Teresa
gustaba que se gastara lo necesario para la ornamentación de la iglesia
(flores, perfumes, ornamentos litúrgicos, imágenes piadosas) y que las
celebraciones se hicieran con dignidad, pero con gran sobriedad. No quiere que
sus monjas tengan que perder mucho tiempo en los ensayos de cantos difíciles ni
que las celebraciones se conviertan en conciertos o en entretenimientos para
personas desocupadas, por lo que prefiere el canto semitonado y las melodías
sencillas a la polifonía. Muchas veces pedía a los sacerdotes amigos que
explicaran a la comunidad el sentido de algún salmo o de alguna lectura del
Oficio Divino. Ella comulgaba cada día (algo verdaderamente excepcional en su
época) y quería que sus monjas también lo hicieran o, al menos, que comulgaran
con mucha frecuencia.
No prescribe prácticas piadosas (ni aun el
rosario, a pesar de que ella lo rezaba cada día), ni métodos ni fórmulas de
oración: «Lo que más os mueva a amar, eso haced». A algunas les ayudará comenzar
con una lectura espiritual y a otras mirar con atención un cuadro o una imagen.
A alguna le ayudará permanecer de rodillas y a otra sentada. Las jaculatorias
piadosas serán útiles para unas y la contemplación de la naturaleza para otras.
Ella sabe que todas las personas no pueden hacerse composiciones de lugar y
concentrarse en la meditación, pero todos estamos capacitados para amar. Por
eso insiste en que hablemos a Jesús con la misma naturalidad que hablaríamos a
un padre o a un esposo o a un amigo, contándole nuestras cosas, estando en su
compañía, dejándonos mirar por él. Lo importante es que la oración sea
auténtica y que no se desentienda de la vida, sino que desemboque en el
ejercicio del amor y en el servicio (cf. F 5).
De hecho, la oración no se limita a los
momentos que las religiosas pasan juntas en el coro de la iglesia. Ella tiene
claro que «también entre los pucheros anda el Señor» y que sería muy duro si
solo se le pudiera encontrar «en los rincones». Por eso pide a las hermanas que
no se preocupen si en algún momento tienen que dejar los tiempos de oración
para cuidar de alguna enferma o hacer otros servicios necesarios, porque
también en esas actividades están sirviendo al Señor, ya que las hacen por amor
a él. Más tarde, cuando se multipliquen sus viajes y actividades, le vendrá el
pensamiento de que se sirve mejor a Dios estando apartada de esos negocios,
pero sentirá que Jesús mismo le dice que no se deben dejar, que basta que haga
todo con recta intención y desasimiento, como él mismo hizo en todas sus
actividades (cf. Relación 11).
Amiga de la cultura y de las buenas letras,
quiere que sus monjas se formen. Es enemiga de «devociones a bobas». Quiere que
su vida espiritual se construya sobre cimientos sólidos. Para eso llama a los
mejores predicadores que encuentra, para que tengan en la iglesia y en el
locutorio pláticas para las religiosas. La priora debe tener cuidado de que la
biblioteca conventual disponga de buenos libros y el horario debe permitir que
las hermanas tengan tiempo para la lectura espiritual y para la formación todos
los días. Pero «las letras» no son un fin en sí mismas, sino un medio para
mejor conocer y más amar a Jesucristo. Teresa sabe que puede surgir una
soberbia sutil en quienes se creen superiores por tener más estudios o
conocimientos. Como hemos dicho más arriba, insiste a sus monjas en que deben
ser sencillas en el trato. No deben ser rebuscadas en el hablar ni entrar en
discusiones por cuestiones de palabras o de conceptos. Entre las carmelitas
descalzas, la cultura no puede entrar en contradicción con la llaneza y la
naturalidad.
Introduce en la vida de las monjas la novedad
de dedicar una hora por la mañana y otra por la tarde a la convivencia intensa
y distendida. Es la «recreación», en la que se comparten las alegrías y las
contradicciones de la jornada entre poesías, canciones y bromas, mientras se
cose o se realizan otras actividades que no exijan demasiada atención. Ya hemos
hablado de sus poemas místicos, pero también conservamos muchos de los poemillas
compuestos por la Santa para estas recreaciones: cantos para celebrar la
Navidad, o la Circuncisión, o la Epifanía, o la Semana Santa, o las fiestas de
san Andrés, san Hilarión, santa Catalina, o con motivo de algunos
acontecimientos comunitarios, como la toma de hábito o la profesión de las
hermanas; incluso una para suplicar al Señor ser libradas de una plaga de
piojos.
«Pues nos dais vestido nuevo,
Rey celestial,
librad de la mala gente
este sayal…
Inquieta este mal ganado
en oración,
el ánimo mal fundado
en devoción;
más Dios en el corazón
tened igual.
Librad de la mala gente
este sayal…» (P 27).
En su época, la autenticidad de la vivencia
religiosa se medía por la capacidad de renuncia y por las penitencias. En las
vidas de los Santos se leían sus ayunos y sacrificios. Ella había querido
imitarlos con fatales consecuencias para su salud. Ahora, desde su experiencia
personal, escribe que «en la vida de los Santos, hay cosas para admirar y cosas
para imitar». Sus penitencias entran en la categoría de lo admirable, sus
virtudes en la de lo imitable. En S. José se insistirá en la práctica de las
virtudes, en la identificación con Cristo y con sus sentimientos, en la unión
amorosa con él. La austeridad y la ascesis se harán con moderación y suavidad,
«apretando más en las virtudes que en el rigor, que este es nuestro estilo». La
austeridad de vida no es un fin en sí mismo, sino un medio para centrarse en lo
esencial, sin dispersiones.
La alegría de las hermanas será la mejor
manifestación de que sus vidas están totalmente centradas en Cristo, que llena
sus corazones. Solo la unión con él puede convertirlas en la luz, sal y
levadura que el mundo necesita.
La «estética» teresiana
En san José
surge una «estética» teresiana, una manera de mirar el mundo y de
representarlo. Santa Teresa proviene de la Encarnación, monasterio construido
en las afueras de la ciudad con numerosas dependencias en torno a un claustro
monumental, con una Iglesia capaz de albergar a muchos feligreses y con varios
edificios alrededor del núcleo central para acoger a los capellanes, la
servidumbre, los pajares, los animales de labranza... Los monasterios
tradicionales, con sus sólidos edificios, servían para recordar al mundo los
valores que permanecen para siempre. Si, además, se encontraban alejados de las
ciudades, invitaban a abandonar los bienes de este mundo para buscar los del
cielo.
San José
surgirá como una casa más en medio de un barrio bullicioso. La capilla será una
habitación pequeña y recogida, como un nuevo «portalico de Belén», dirá ella.
Por supuesto que no necesitan torre, sino que basta con una campanilla colgada
del muro, para llamar a la oración. La casa de Teresa recuerda a la sociedad de
su tiempo que Dios «ha puesto su morada entre nosotros» y que permanece siempre
a nuestro lado «ayudándonos en lo interior y exterior». Ella, que quería que
sus monjas encontraran a Dios no solo en el templo, sino también «entre los
pucheros» y en las demás actividades cotidianas, quiere que la población sienta
a sus monjas vecinas, cercanas. Por eso, la misma arquitectura conventual no se
diferenciaba mucho de la de las casas de alrededor.
La cocina,
las celdas y las demás dependencias del monasterio serán austeras y
funcionales: paredes encaladas, pisos de baldosas de barro, vigas de madera sin
decorar, una cruz desnuda en la pared, un poyo junto a la ventana para
escribir, un candil, los útiles de trabajo (rueca, agujas de bordar, etc.) y un
cántaro de agua para asearse. En los lugares comunes se colocarán algunos
cuadros e imágenes en los que se busca que despierten la devoción por encima
del valor artístico o económico.
Para producir
verduras y frutas y para procurar esparcimiento a las hermanas, se cuidará la
huerta, en la que también se plantarán algunas flores junto al arroyo y se
construirán unas pequeñas ermitas para el retiro personal. Todo dirigido a la
búsqueda de la belleza interior, la única que perdura en el tiempo. Todo muy
sencillo, muy recogido y muy limpio: «Mal me parece que de la hacienda de los
pobres se hagan grandes casas. La nuestra sea pobrecita en todo y chica, que a
trece pobrecillas, cualquier rincón les basta [...]. Que no haga mucho ruido al
caerse el día del juicio» (CE 2,9).
Sensibilidad apostólica
Es una de las cosas que más sorprenden es esta
monja contemplativa. Como buena carmelita, tiene por modelo al profeta Elías.
La Orden del Carmelo habla siempre de su “doble espíritu” (el contemplativo y
el apostólico), que se manifiesta en sus dos lemas, que han estado siempre
presentes en la espiritualidad de la Orden. La dimensión contemplativa
encuentra su expresión en el lema “Vive Dios, en cuya presencia estoy” (1Re
17,1; 18,15). La dimensión apostólica se recoge en el otro lema eliano, que se
conserva hasta el presente en el escudo carmelitano: “Ardo en celo por el Señor
Dios todopoderoso” (1Re 19,10;14). Cada carmelita tiene que hacer un camino
personal para combinar estas dos realidades, de manera que no se rompa la
armonía y que la oración sea apostólica y el apostolado sea orante.
Santa Teresa decía que Marta y María deben
caminar de la mano (cf. 7M 4,12) y que todas las recomendaciones de Jesús a sus
seguidores se resumen en el mandamiento del amor: “El Señor solo nos pide dos
cosas en las que tenemos que trabajar: amor a Dios y al prójimo. Si las
cumplimos con perfección, hacemos su voluntad y estaremos unidas con Él” (5M
3,7). A ella le gustaba repetir lo que dice san Juan: “El que no ama a su
hermano, a quien ve, no puede amar a Dios, a quien no ve” (1Jn 4,20).
Sus ansias evangelizadoras y su amor
apasionado a la Iglesia y a todos los hombres, especialmente a los pecadores y
a los que más sufren (pobres, enfermos, etc.) brotaron precisamente de su
enamoramiento por Cristo y de su relación personal con él. Por eso insistía a
sus monjas en que su ocupación principal es orar por la Iglesia y por sus
necesidades, teniendo presentes a todos los hombres ante el trono de Dios, día
y noche. Su profundo amor a la Iglesia la lleva a identificarse con su causa y
a dedicar todas sus energías a su servicio, sin perder tiempo en cosas
secundarias: «Está ardiendo el mundo, quieren tornar a sentenciar a Cristo,
quieren poner su Iglesia por el suelo [...]. Hermanas mías, no es tiempo de
tratar con Dios negocios de poca importancia» (CE 1,5).
Confiesa que las divisiones religiosas del
momento fueron el motor que la impulsó a fundar: «Venida a saber los daños de
estos luteranos y cuánto iba en crecimiento esta desventurada secta, lloraba
con el Señor y le suplicaba remediase tanto mal [...]. Y ya que tiene tantos enemigos
y tan pocos amigos, que estos sean buenos; y así determiné a hacer esto poquito
que yo puedo, que es seguir los consejos evangélicos con toda la perfección que
yo pudiese, y procurar que estas poquitas que están aquí hiciesen lo mismo
[...]. Todas ocupadas en oración por los que son defensores de la Iglesia y
predicadores y letrados [...]. Para esto os juntó aquí el Señor; este es
vuestro llamamiento, estos han de ser vuestros negocios» (CE 1,2ss).
Su pasión por las almas queda ampliamente
recogida en sus escritos y en los testimonios de sus contemporáneos, como en
este de Isabel de Sto. Domingo: «Decía muchas veces que, si fuera lícito que
las mujeres pudieran ir a enseñar la fe cristiana, fuera ella a enseñarla a
tierra de herejes, aunque le costara mil vidas». La presencia de los hermanos
de Teresa en América, la tuvo ampliamente informada de los avances y de los
abusos de la Conquista. Siempre estuvo preocupada por la suerte de los
indígenas, llegando a escribir «que no me cuestan pocas lágrimas estos indios».
Especiales ansias misioneras se despertaron en
ella y en sus compañeras con motivo de la visita al locutorio de S. José de un
amigo del obispo Bartolomé de Las Casas, que se dirigía con un memorial a
defender la causa de los Indios ante el rey y la Corte: «Acertó a venir un
misionero franciscano, llamado fray Alonso Maldonado, muy siervo de Dios y con
los mismos deseos del bien de las almas que yo (y los podía poner por obra, que
yo le tuve mucha envidia). Venía de las Indias y comenzó a contar de los muchos
millones de almas que allí se perdían por falta de doctrina [...]. Me fui a una
ermita con muchas lágrimas; clamaba a Nuestro Señor, suplicándole que diese
medio para que yo pudiese hacer algo para ganar algún alma para su servicio [...].
Tenía gran envidia a los que podían ocuparse en esto por amor de Nuestro Señor»
(F 1,7).
Con sus ansias evangelizadoras crece también
su sensibilidad hacia los más desfavorecidos y sus deseos de justicia para los
pueblos evangelizados. Al año de fundado S. José, escribe una segunda Cuenta de Conciencia para el P. Pedro
Ibáñez, en la que le da cuenta de su oración y de su evolución en este campo:
«Paréceme que tengo mucha más piedad que solía hacia los pobres, teniendo yo
una lástima grande y deseo de remediarlos, que, si mirase mi voluntad, les
daría lo que traigo de vestido. Ningún asco tengo de ellos, aunque los trate y
llegue a las manos. Y esto veo que es ahora un don de Dios, que aunque por amor
de él hacía limosna, piedad natural no la tenía. Bien conocida mejoría siento
en esto» (CC 2,5). Más adelante, escribirá una carta a su hermano Lorenzo
compartiéndole sus sufrimientos por algunas noticias que recibe sobre las
conquistas americanas: «Me lastima ver tantas almas perdidas, y esos indios no
me cuestan poco. El Señor los dé luz, que acá y allá hay mucha desventura. Como
me hablan muchas personas, no sé muchas veces qué decir, sino que somos peores
que bestias» (Cta 24,20).
Mujer inquieta y andariega
Teresa gozaba de la paz en su conventico de S.
José: «Estaba deleitándome entre almas tan santas y limpias, adonde todo su
cuidado era únicamente servir y alabar a nuestro Señor» (F 1,2). Muchas jóvenes
le pedían entrar en él, pero ella no estaba dispuesta a aceptar más de las 13
que ya convivían allí, porque conocía por experiencia los peligros de los
monasterios numerosos. Quería hacer algo por estas mujeres buenas que
pretendían unirse a ella, aunque no sabía qué, ni tampoco encontraba un lugar
apropiado al que enviarlas. Además, crecían en ella las ansias de hacer algo
por los demás, aunque era consciente de que a las mujeres de su época les
estaba prohibido realizar ningún apostolado: «Considerando yo el gran valor de
las hermanas y el ánimo que Dios las daba para servirle, muchas veces me
parecía que las riquezas que ponía en ellas eran para algún gran fin. Con el
pasar del tiempo, crecían mis deseos de hacer algo por el bien de las almas.
Muchas veces me sentía como quien tiene un gran tesoro guardado y quiere que
todos gocen de él y le atan las manos para que no lo distribuya» (F 1,6).
Ella sabe que su propuesta de vida es buena
para la Iglesia, se siente poseedora de un gran tesoro que querría compartir
con todo el mundo, pero también es consciente de que su condición de mujer le
cerraba las puertas a cualquier posibilidad de poner en práctica sus grandes
deseos. Con una expresión muy significativa dice que es como si le ataran las manos. Como ya hemos visto, esa era la triste
situación de las mujeres en la sociedad de su época y las cosas no eran muy
diferentes en el seno de la Iglesia. La única vocación femenina que se aceptaba
era la de monja de clausura y a las consagradas no se les permitía realizar
ninguna labor a favor de sus semejantes.
No encontrando comprensión entre los hombres,
dirige su oración al cielo: «Suplicaba a Dios que se ofreciese medio para que
yo pudiera hacer algo para ganar algún alma para su servicio. Tenía gran
envidia de los que pueden ocuparse en esto por amor de nuestro Señor, ya que,
cuando leo en las vidas de los Santos que convirtieron almas, me produce más
devoción y ternura y envidia que todos los martirios que padecen» (F 1,7). Ella
deseaba trabajar para dar a conocer a Cristo, anunciar su evangelio, sembrar su
amor en los corazones y sentía envidia de los misioneros, de los sacerdotes, de
los que podían anunciar públicamente la fe.
Por entonces, «andando yo con esta pena tan
grande, una noche, estando en oración, se me representó el Señor de la manera
que acostumbra, y mostrándome mucho amor, como para consolarme, me dijo:
“Espera un poco, hija, y verás grandes cosas”» (F 1,8). Teresa comenta que
estas palabras se le quedaron grabadas en el corazón y que no las podía apartar
de sí, aunque no atinaba a pensar qué podían significar. Sabía que se
cumplirían, pero no podía adivinar la manera. El enigma tardó algunos meses en
aclararse.
Mientras tanto, el Concilio de Trento en sus
últimas sesiones había redactado los decretos para la reforma de los clérigos y
de los religiosos. En 1567, Pío V, recién elegido Papa, urge a que se pongan en
práctica. Ese mismo año llega desde Italia, en visita pastoral, el general de
la Orden, el P. Juan Bautista Rossi (o Rubeo, en la versión latinizada del
apellido que usa siempre Teresa), «algo que no había sucedido antes, porque el general
siempre se está en Roma», cuenta ella.
Aunque ella recibe la noticia con miedo,
porque el general podía deshacer su obra, encontró en él comprensión y apoyo.
Además, le dio permiso para fundar «tantos monasterios como cabellos tiene en
la cabeza». Así inicia una labor hercúlea que la lleva a fundar 17 monasterios
de monjas y 15 de frailes en 15 años entre grandes dificultades y
contradicciones.
Para comprender lo que esto significó, recordemos
que las vías de comunicación seguían siendo las antiguas calzadas romanas, muy
deterioradas después de 1500 años de uso sin reparaciones ni mantenimiento. Los
caminos eran pistas polvorientas en verano, que se convertían en barrizales
impracticables durante el invierno. Los puentes para franquear los ríos eran
casi inexistentes, por lo que se cruzaban en barcazas (que tampoco eran
abundantes). Las posadas eran poco numerosas y todos los relatos de la época
coinciden en subrayar su incomodidad, al tratarse de lugares sucios, poco
ventilados, sin camas, llenas de chinches y pulgas entre la paja. Por eso
Teresa y sus acompañantes durmieron ordinariamente en el suelo de las iglesias
del camino y solo hicieron uso de las posadas cuando no quedaba otra
posibilidad. Además, tampoco tenían servicio de comida (contra lo que aparece
en las películas pseudohistóricas que recrean la época).
La misma Santa relata las dificultades para
encontrar provisiones en los caminos. En su viaje de Beas a Sevilla, por
ejemplo, algunos días no encontraron ningún alimento que comprar a los
posaderos ni a los campesinos y en el postrero de Burgos a Alba de Tormes
consiguieron únicamente unos higos secos. María de san José dejó testimonio
escrito sobre el argumento: «Muchos días solo podíamos conseguir unas habas, o
un poco de pan, o algunas cerezas, o cosa así; y cuando hallábamos un huevo
para nuestra Madre, era gran cosa».
Pero la dificultad principal la encontró, al
igual que para escribir, en su condición femenina. Hasta entonces, todos los
monasterios y Órdenes religiosas habían sido fundadas por hombres: san Benito
de Nursia fundó las benedictinas, santo Domingo de Guzmán las dominicas, san
Francisco de Asís las clarisas. Incluso en el caso de mujeres que tuvieron los
bienes necesarios para erigir un monasterio o un hospital en el que retirarse a
servir a los enfermos (como las reinas santa Isabel de Portugal y santa Isabel
de Hungría después de quedarse viudas), encargaron a varones que realizaran los
trámites necesarios. Pero Teresa negocia directamente con las autoridades,
establece acuerdos con los bienhechores, compra casas, dirige obras… lo que
provoca la reacción de los que no estaban dispuestos a permitir que una mujer
actuase sin someterse al criterio de los varones. Ella misma lo reconoce así al
reflexionar sobre las oposiciones que encontraba: «Todos estaban espantados de
tal atrevimiento, que una mujercilla, contra su voluntad, les hiciese un
monasterio» (F 15,11).
La mayoría de los que la trataban
personalmente terminaban siendo amigos suyos y apoyando su obra. Pero ella era
consciente de que muchas personas influyentes no aceptaban que una monja andase
fuera de su convento, fundando y escribiendo con una libertad que en aquella
sociedad estaba vetada a las mujeres, por lo que no deja de moverse buscando
apoyos: «Me alegra que vuestra señoría haya tenido ocasión de hablar a favor de
mis salidas. Cierto, es una de las cosas que más me cansan en la vida y que
mayor trabajo es para mí; especialmente ver que se tiene por malo [...]. Cuando
veo lo que se sirve el Señor en estas casas, todo se me hace poco» (Cta 76,10).
Como casi todos le insistían en que las
mujeres deben someterse a los hombres, en cierto momento le entran escrúpulos
sobre su obra. Especialmente, porque sus superiores (confesores, provinciales,
obispos) son los representantes de Dios y parecen los más opuestos a su obra. Casi
todo el mundo conoce que el nuncio la calificó como «fémina inquieta y
andariega, desobediente y contumaz, que a título de devoción inventa malas
doctrinas, andando fuera de clausura, contra la orden del Concilio Tridentino y
de los prelados, enseñando como maestra contra lo que san Pablo enseñó mandando
que las mujeres no enseñasen». En cierto momento, incluso el papa san Pío V escribió
una carta al obispo de Ávila en la que le pidió que ya no permitiera a la Madre
Teresa abandonar su convento para fundar otros ni para visitar los ya fundados.
Para una mujer honesta y siempre buscadora de
la verdad, la pregunta surgió espontánea: ¿Se engañó a sí misma durante tanto
tiempo? ¿Se engañaron también tantos consejeros a los que había pedido luz en
esos años? Fue Cristo mismo quien la consoló, tal como ella misma confiesa:
«Estando pensando si tenían razón los que les parecía mal que yo saliese a
fundar y que yo estaría mejor empleándome siempre en oración, entendí:
“Mientras se vive, no está la ganancia en procurar gozarme más, sino en hacer
mi voluntad”. Parecíame a mí que, pues san Pablo manda el encerramiento de las
mujeres (que me lo han recordado hace poco, pero ya antes me lo habían dicho),
que esta sería la voluntad de Dios. Él me dijo: “Diles que no se sigan por una
sola parte de la Escritura, que miren otras, y que si por ventura podrán atarme
las manos”» (CC 16). Así que, con la ayuda del Señor y con mucha imaginación y
tenacia, perseveró sorteando todos los obstáculos para realizar su obra.
El desenlace de su aventura
Hasta en el morir fue original. Lo hizo el 4
de Octubre de 1582, a los 67 años de edad. Los testigos presenciales recogen
dos expresiones suyas profundamente significativas. Por un lado, afirmó:
«Muero, al fin, hija de la Iglesia», que es como un grito reivindicativo.
Aunque vivió siempre bajo sospecha y muchas veces amenazada, sus enemigos no
consiguieron expulsarla de la comunidad cristiana. Por otro lado, dirigiéndose
a Jesús, exclamó antes de fallecer: «Es tiempo de caminar». Muchos la querían
encerrada e inactiva, pero ella había recorrido los caminos al servicio de
Cristo y de los hermanos y pensaba seguir haciéndolo después de muerta.
El día de su fallecimiento se reformó el
calendario. Hasta entonces se usaba el «Juliano», instituido por Julio César en el año 46 a.C., que constaba de 12 meses de
30 días cada uno, con cinco días de menos al año y uno bisiesto cada
cuatrienio. El emperador Aureliano lo reajustó el año 270 d.C., pero tenía
el inconveniente de que se perdían algunas horas cada año. El Papa Gregorio XIII ordenó que se empezara a utilizar una
nueva manera de contar el tiempo: el calendario «Gregoriano», que sigue vigente
hasta el presente. Para arreglar el desfase, se eliminaron 11 días del
calendario, por lo que santa Teresa se murió en la noche del 4 al 15 de octubre
de 1582.
Ya hemos dicho que sus obras fueron
rápidamente editadas y traducidas a otros idiomas. También sus hijas se
extendieron rápidamente por toda la geografía española y se hicieron presentes en
Portugal, Francia, Países Bajos, Inglaterra… estando hoy esparcidas por el
mundo entero.
Hago mías las palabras de fray Luis de León en
el prólogo de la edición príncipe de las obras de santa Teresa (año 1589): «Yo
no conocí, ni vi a la madre Teresa de Jesús mientras estuvo en la tierra, pero
ahora, que vive en el cielo, la conozco y veo casi siempre en dos imágenes
vivas que nos dejó de sí, que son sus hijas y sus libros». Hoy, como entonces,
quien quiera conocer el verdadero espíritu de esta mujer tiene dos caminos: la
lectura de sus obras y el trato con sus hijas.
6. La experiencia orante de Santa Teresa
Santa Teresa
es maestra de oración en la Iglesia. Su doctrina es tan profunda y convincente
porque la ha vivido antes de escribirla. De hecho, repite muchas veces que solo
escribe lo que ha experimentado. En este sentido, todos sus libros son
autobiográficos. En ellos expone su camino de oración y lo propone para los que
quieran escucharla.
Infancia y juventud
Teresa
recuerda que su madre tenía mucho cuidado de enseñar a rezar a sus hijos y de
transmitirles su devoción a la Virgen y a algunos Santos (V 1,1). Con un
hermano de su edad, se entretenía en leer vidas de Santos, a los que querían
imitar. Ya a la edad de «seis o siete años» gustaba meditar en que la gloria
del cielo y las penas del infierno son para siempre (V 1,4). Con su hermano
jugaba a que eran ermitaños (V 1,5) y con otras niñas de su edad a que eran
monjas (V 1,6). Añade que «Procuraba soledad para rezar mis devociones, que
eran muchas, en especial el rosario» (Ib.).
Por eso, cuando quedó huérfana a los 13 años, acudió de manera espontánea a
María, pidiéndole que fuera su Madre (V 1,7).
A los 16
años la internan en un monasterio, donde jóvenes de su condición recibían
formación hasta el momento del matrimonio (V 1,6). Allí lleva una vida de
piedad, acompasada por el rezo de muchas oraciones vocales (V 2,2). Lo abandona
por causa de una enfermedad y, mientras va a curarse a casa de su hermana, se
detiene en el camino en casa de su tío Pedro. Este dedicaba su tiempo a la
lectura de buenos libros religiosos y, más tarde, se haría monje. Regala a su
sobrina las Cartas de san Jerónimo, que hablan mucho de la
oración (la 3ª parte se titula Sobre el
estado eremítico o vida contemplativa). Su compañía lleva a Teresa a
recordar sus meditaciones de niña sobre lo rápido que pasa todo y que cielo e
infierno son para siempre. Así decide hacerse monja (V 3,5).
El descubrimiento de la meditación
En el noviciado
del monasterio de la Encarnación de Ávila encuentra un buen clima orante. De
hecho, la Regla del Carmelo invita a «permanecer
día y noche en oración, meditando la Palabra de Dios y velando en oración»
(Regla 8). Las Constituciones del
monasterio mandaban que «con mucha diligencia trabajen las novicias en estudiar
y aprender a cantar los salmos y el Oficio Divino y sean enseñadas en todas las
rúbricas» (BMC 9,494). Aunque ella no sabía latín, el rezo de los Salmos y del
Oficio Divino va a ocupar muchas horas de su vida a partir de ese momento.
Quizás por entonces tiene su primer encuentro con los evangelios traducidos al
español, ya que afirmará: «Siempre he sido muy aficionada y me han recogido más
las palabras de los evangelios que otros libros» (C 21,4).
Tres años
después abandona temporalmente el monasterio, a causa de otra enfermedad. De
camino a casa de su hermana, su tío le volvió a proporcionar buenos libros. En
primer lugar, el Comentario al libro de
Job, de san Gregorio Magno, en el que encontró un buen modelo de oración
bíblica: Job habla con Dios, en medio de su enfermedad, exponiéndole sus
sufrimientos y dirigiéndose a Él con sus propias palabras. También el Tercer Abecedario, de Francisco de
Osuna, que será fundamental en su vida, ya que le abrió el camino de la oración
mental. Le fascinó lo que allí encontró desde la primera página: «La amistad y
comunicación de Dios es posible en esta vida, más estrecha y segura que jamás
fue entre hermanos ni entre madre e hijo». Ella comenta que, hasta entonces, «no
sabía cómo proceder en la oración ni cómo recogerme. Por eso, me alegré mucho
con ese libro y me determiné a seguir
camino con todas mis fuerzas» (V 4,7).
Comienza a
practicar lo que después llamará «primer grado de la oración», que consiste en
meditar en la vida de Cristo y en el conocimiento propio. Le ayuda la lectura
de buenos libros, fijar su mirada en imágenes del Señor y la contemplación de
la naturaleza, en la que ve una huella del Creador. En los tres años que
permanece en la enfermería del monasterio, dedica mucho tiempo a la oración y a
enseñar a orar a otras, que admiran su paciencia y su alegría (V 6,4). Su mismo
padre se convierte en discípulo suyo.
La oración tentada
Hacia los 27
años se recupera de su postración (V 6,8). Lo milagroso de su curación, la
profundidad de sus palabras y su simpatía natural hicieron que muchos acudieran
a hablar con ella en el locutorio del monasterio y a consultarle sus asuntos.
Las conversaciones se alargaban, derivando en temas intrascendentes, convirtiéndose
en meros pasatiempos. Como esto revertía en limosnas para el convento, tan
necesitado, a todos les parecía bien. Aquí introdujo el demonio la mayor
tentación de toda su vida, disfrazada de humildad. Teresa se sintió indigna de
acercarse a la oración, convencida de que solo las personas perfectas son
dignas de tratar con Dios y viéndose a sí misma tan imperfecta: «comencé a
tener miedo de tener oración mental» (V 7,1). Ella quería sinceramente
clarificar sus dudas, pero no encontraba con quién. La ocasión llegó con motivo
de la enfermedad y muerte de su padre. Mientras lo cuidaba, tuvo ocasión de
hablar con su confesor, que la animó a comulgar a menudo y a recuperar la
oración (V 7,17).
A partir de
ese momento se propuso practicar todos los días, por lo menos, una hora de
oración silenciosa. De regreso al monasterio, su vida cotidiana se repartía
entre los rezos comunitarios, la lectura espiritual, la oración personal, el
cuidado de las enfermas y la atención en el locutorio a cuantos la visitaban.
Muchos la consideran una religiosa ejemplar. Pero ella no estaba contenta,
porque se sentía dividida: «Por una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía
al mundo. Me daban gran contento todas las cosas de Dios, pero me tenían atada
las del mundo. Me parece que quería compaginar estos dos contrarios» (V 7,17).
Cuando
escribe sus recuerdos, en la cima de su vida espiritual, considera todo el
tiempo perdido como una traición al amor de Dios. Como recibió tantas gracias
de Él, se sentía más obligada a vivir en su amistad, entregándose sin reservas.
Sintiéndose tan imperfecta, le humillaban las gracias que el Señor le concedía:
«Con grandes regalos castigabais mis delitos» (V 7,19). En esta tensión se
mantuvo durante 10 años, hasta que Dios la venció totalmente.
La conversión
Ante una
imagen de Cristo muy llagado, se determinó a entregarse por completo en sus
manos, haciendo siempre y en todo la voluntad de Dios (V 9,1). Exclamará: «Antes
me cansé yo de ofenderle que Él de perdonarme» (V 19,17). Teresa contaba 39
años y se dispone a comenzar una nueva etapa de su existencia, la más original
y fecunda. Se acabó el tiempo de construir su vida sobre lo que los demás
puedan pensar de ella, sobre el afecto en las criaturas, sobre las ocupaciones
y actividades exteriores (por muy buenas y religiosas que sean). Desde ese
momento, la oración será la columna vertebral de su existencia.
Es
importante tener presente que, para Teresa y sus contemporáneos, la oración no
es solo una actividad del alma, sino una manera de ser, una opción de vida que
conlleva introspección, búsqueda de una relación personal con Dios y una manera
de situarse ante el mundo, viviendo a la luz del evangelio. Hoy lo llamamos «espiritualidad».
Lo vemos en san Ignacio: «Por Ejercicios
Espirituales se entiende todo modo de examinar la conciencia, de meditar,
de orar vocal y mentalmente y de otras actividades [...] para quitar de sí
todas las afecciones desordenadas y buscar la voluntad divina» (Primera
anotación de los Ejercicios). Esto
era la «oración» en el s. XVI.
Este tema es
tan importante que, cuando santa Teresa cuenta su historia, se siente obligada
a hacer un gran paréntesis de 12 capítulos (V 11-22), para introducir unas
reflexiones sobre la oración, que nos ayuden a comprender lo que viene después.
Especialmente, subraya la dimensión relacional de la oración, que no consiste
en repetir fórmulas. Es una relación de amistad con Dios, que brota del
sabernos queridos y aceptados por Él y que conlleva una verdadera
transformación de la propia existencia, teniendo a Cristo por modelo: «A mi
parecer, la oración mental no es otra cosa que tratar de amistad, estando
muchas veces tratando a solas con quien sabemos que nos ama» (V 8,5). Al
retomar el relato de su vida, dirá: «Es otro libro nuevo de aquí adelante, digo
otra vida nueva» (V 23,1).
La oración afectiva
Desde que
inició la práctica de la oración, Teresa comenzaba meditando alguna página del
evangelio o de otro libro espiritual. En la meditación, ella se «representaba»
una escena de la vida de Cristo y reflexionaba sobre sus enseñanzas: «Yo tenía
este modo de oración: procuraba representar a Cristo dentro de mí […] y estaba
con Él lo más que me dejaban mis pensamientos» (V 8,4).
En cierto
momento, comienza a percibir la presencia misteriosa, pero real, del Señor a su
lado, sin que ella haga nada para provocarlo. Es la entrada en la oración
mística: «Me venía a deshora un sentimiento de la presencia de Dios, que en
ninguna manera podía dudar de que estaba Él dentro de mí y yo toda envuelta en
Él» (V 10,1). Esto le producía asombro y gozo. Sus confesores creen que el
diablo la engaña, pero ella no puede dudar de que quien la visita es Dios,
porque se siente cada día más firme en la fe y en la esperanza, más generosa en
la práctica de la caridad y más desasida de todo.
En su
oración, los pensamientos y meditaciones van a ocupar cada vez menos tiempo.
Por el contrario, lo decisivo será el afecto, la voluntad. Se siente en
presencia de Cristo, al que mira amorosamente y del que se deja mirar, al que
habla, sin importarle las palabras que usa, como con un amigo, con un hermano,
con un esposo. Eso mismo recomienda a sus lectores: «No
os pido que penséis, ni que saquéis muchos conceptos, ni que hagáis grandes y
delicadas consideraciones con el entendimiento. Solo os pido que le miréis […]
Si estás alegre, mírale resucitado […] Si estás triste, mírale camino del
huerto […] o atado a la columna […] o cargado con la cruz […] Y Él te mirará
con unos ojos tan hermosos y olvidará sus dolores para consolar los tuyos […] Y
habla muchas veces con Él. Si hablas con otras personas, ¿por qué te habrían de
faltar las palabras para hablar con Él» (C 26,3-9). Efectivamente, Teresa ha
descubierto que «aquí no está la cosa en pensar mucho, sino en amar mucho. Así,
lo que más os mueva a amar, eso haced» (4M 1,7).
La plenitud contemplativa
Desde que
empezó a practicar esta oración afectiva (ella la llama oración de
recogimiento), se multiplicaron las gracias místicas: hablas interiores,
visiones, éxtasis, heridas de amor en el corazón. A diferencia de la
meditación, que es discursiva y se realiza con el esfuerzo del entendimiento,
esta oración es intuitiva y se recibe como un don gratuito. Al principio se
asustó. No encontraba las palabras adecuadas para explicar lo que le pasaba. En
busca de luz para comprenderlo, empieza a ponerlo por escrito. Sus primeros
consejeros no la entendían. Querían «explicaciones» comprensibles y Teresa solo
podía ofrecerles un «testimonio» de cómo este encuentro la transformaba.
Ella sabía
que sus experiencias no eran resultado de su obrar, sino que venían de Dios,
por los efectos que producían: verdadera humildad, libertad interior,
desasimiento de todo lo criado, fortaleza en el sufrimiento, amor
desinteresado. San Francisco de Borja, san Pedro de Alcántara y san Juan de
Ávila la confirmaron en que venían de Dios. Con tan buenos apoyos,
desaparecieron sus miedos y todo se convirtió en oración: «cesaron mis males y
el Señor me dio fuerza para salir de ellos […]. Todo me servía para conocer más
a Dios y amarle y ver lo que le debía y pesarme de la que había sido» (V
21,10).
Teresa se
sentía totalmente identificada con Cristo y sus sentimientos. De su unión con
Él brotó su amor apasionado por la Iglesia y la fortaleza necesaria para
trabajar por la causa de Cristo sin hacer caso de opiniones contrarias. Al
mismo tiempo que alcanzó las más altas cimas de la mística, se convirtió en «andariega»
de Dios, fundadora de monasterios, maestra de oración y escritora de libros de
espiritualidad. En ella, Marta y María caminaron indisolublemente unidas, ya
que «para este fin hace el Señor tantas mercedes en este mundo» (7M 4,4).
Quiera el Señor que, siguiendo el ejemplo de Santa Teresa, nuestra oración nos
mueva a entregarnos totalmente al servicio de Cristo y a dejarle actuar en
nosotros.
7. Enseñanzas sobre la oración
Los escritos
de santa Teresa han servido de estímulo y alimento para la vida espiritual de
varias generaciones cristianas. Como ya hemos dicho, cuando narra la historia
de su vida, en cierto momento tiene que interrumpirla e introducir un
tratadillo de oración, porque si no lo hace, no se puede entender lo que viene
a continuación. Tomando enseñanzas de esas páginas y de sus demás escritos,
ofrezco una carta que ella no escribió, pero que está compuesta a partir de
textos suyos, por lo que perfectamente la podemos leer como dirigida por ella a
cada uno de nosotros, con su estilo directo e interpelante. Comenzamos como
hace ella en su epistolario:
Jesús. El Espíritu Santo sea con vuestra
merced.
La necesidad de la oración
Hallándome
yo en este Palomarcico de la
Virgen, a mi noticia ha venido su interés en las cosas del
espíritu, de lo que he recibido mucho contento. Y ya que tanto me ha
importunado para que le escriba algo de lo que yo entiendo sobre asuntos de
oración, pongo aquí por seguido algunas de las cosas que tengo escritas en
otros lugares, con la confianza de que quien lo leyere se aproveche para amar
un poco más a Nuestro Señor, a quien sea la gloria por los siglos. Amén.
Pues
hablando de los que comienzan a ser siervos del amor (que no me parece otra
cosa el determinarse a seguir al que tanto nos amó por el camino de la
oración), es una dignidad tan grande, que me regalo mucho de pensar que podemos
tener un trato íntimo con Dios, que se rebaja de buena gana a tratar con sus
siervos. Bien veo que no hay con qué se pueda comprar tan gran bien en la
tierra, ya que consiste en tratar nada menos que con Dios, que quiere
comunicarse en este destierro con sus criaturas para hacerlas grandes mercedes.
Si hacemos lo que podemos en disponernos para acoger los bienes que Él quiere
regalarnos en la oración, su Majestad nos abrirá los tesoros de su corazón,
porque no se niega Él a nadie que le busque con corazón sincero.
Le diré que la
oración me parece tan necesaria, que pienso que quien no la tiene es como un
cuerpo tullido, que aunque tenga pies y manos, no los puede mandar. Y así son
nuestras almas, creadas por Dios con grandes posibilidades y dones, que solo se
descubren y ponen en práctica en el encuentro amoroso con Aquel que las creó
con infinita misericordia. Considero yo que es nuestra alma como un
castillo, todo de diamante o muy claro cristal, en el que hay muchos aposentos,
así como en el cielo hay muchas moradas. En el centro y mitad de todas ellas
está la principal, que es adonde pasan las cosas de mucho secreto entre Dios y
el alma. No hallo yo cosa mejor con qué comparar la gran hermosura del alma y
sus grandes capacidades. Baste pensar que su Majestad dice que nos hizo a su
propia imagen y semejanza, para sospechar algo de nuestra riqueza interior. A
cuanto yo puedo entender, la única puerta para entrar en este castillo es la
oración.
Yo veo mi
alma tan aprovechada y rica en virtudes desde que tengo oración, que es como si
me regalaran con numerosas joyas y manjares exquisitos. Pienso que hemos de ser
muy bobos si no abrimos nuestros corazones a este gran Señor para que Él los
llene, que es como si estuviéramos junto a la fuente y, por no hacer el
esfuerzo de llevarnos el agua a la boca, nos muriésemos de sed. Pues, ¿qué no
dará a sus amigos quien es tan amigo de dar y puede dar cuanto quiera? Él, que
ha dado su vida por nosotros, por fuerza ha de seguir dándonos todo lo que
necesitamos para crecer en su amor, si se lo pedimos con confianza. En el
nombre de Nuestro Señor pido a quien no tiene oración que no se prive de tanto
bien como su Majestad quiere regalarnos en ella.
Al mismo
tiempo, debo decirle que cuando yo no tenía oración, no vivía, sino que peleaba
con una sombra de muerte. Ahora me espanto cómo pude llamar vida a vivir sin
ella. Dios me perdonará que, por mi ignorancia, no sabía yo apreciar tan gran
bien. O quizás fuera el orgullo, que nos hace creer que nos bastamos a nosotros
mismos y que sabemos todo lo que necesitamos saber y que no necesitamos de un
Salvador, al fin y al cabo, porque no lo buscamos.
De lo que yo
tengo por experiencia puedo decir; y es que, por males que haga quien ha
comenzado la oración, no la deje, pues es el medio por donde puede remediarse y
sin ella será mucho más dificultoso. Y quien no la ha comenzado, por amor del
Señor le ruego yo que no carezca de tanto bien. No hay aquí que temer, sino que
desear, que nadie tomó a Dios por amigo que no fuese correspondido por Él. Más
me atrevo a decir: que es Dios quien nos ha amado primero, y nos busca y nos
llama a grandes gritos, y está deseando manifestarse a nosotros… y solo nos
pide que nos dispongamos en la oración para poder regalarnos.
Qué es la oración
En cuanto a
saber decir qué es la oración, no es otra cosa, a mi parecer, sino tratar de
amistad, estando muchas veces tratando a solas con quien sabemos que nos ama.
Cuando el alma ora, tiene amorosa conversación nada menos que con Dios, por lo
que es bueno que advierta y considere mucho con quién está y quién es ella y
qué es lo que dice, porque si no es así, no lo llamo yo oración, por mucho que
menee los labios. No basta con recitar fórmulas aprendidas, como hacen esos
pájaros que repiten lo que escuchan, pero sin entender lo que dicen.
No crea que
le han de faltar palabras para hablar con Jesús. Al menos, yo no le creeré, que
basta tratarle como Amigo y Compañero y Hermano, valiente Capitán, siempre
cercano a los suyos en la pelea. No es nada delicado mi Señor, ni mira en
menudencias. Muchas veces gusta más su Majestad de la humildad de una pobre
labradorcilla que si más supiese más dijese, que de muy elegantes
razonamientos. No son tan importantes las cosas que le decimos como el caer en
la cuenta de que estamos tratando con Dios mismo, que nos acoge en su compañía
y nos hace miembros de su familia. En nuestra relación con Él, no está la cosa
en pensar mucho, sino en amar mucho. Así, lo que más os despertare a amar, eso
haced. No necesitamos de palabras rebuscadas ni de elegantes razonamientos,
sino que hemos de hablar al corazón de nuestro Esposo con humildad y sencillez.
Cierto, no
necesita el alma condiciones especiales para tratar con Dios en la oración, ni
fuerzas corporales; pues, ¿quién no puede echar unas pajillas en el fuego
cuando ve que va a apagarse? No creo yo que sea mayor el esfuerzo de estarse en
amorosa compañía con quien tantas muestras de amor nos ha dado. Él nos acoge, a
pesar de nuestra baja condición, con tal de que ese rato le queramos dar entero
el corazón. Y, pues todo lo sufre y sufrirá por hallar un alma que quiera
estarse con Él y tratarlo con amor, sea esa la nuestra. Es verdad que, para que
sea verdadero el amor, han de encontrarse las condiciones y han de igualarse
los amantes. La condición del Señor ya sabéis que no puede fallar, que nos ama
como Dios. La nuestra es ser ruines y miserables.
Por mucho
que lo considero, no puedo yo entender que un Dios tan grande venga a tratarse
con unos gusanillos malolientes. Me espanta la humildad de este gran Emperador,
que ama a una como yo y me acoge en su compañía, haciéndome de los de su casa.
Señor mío y Dios mío, ¡qué grandes son vuestras grandezas!, y andamos acá como
unos pastorcillos bobos, que nos parece entendemos algo de vos, y debe ser
tanto como nonada. Si me espanta mirar vuestra majestad, más me espanta, Señor
mío, mirar vuestra humildad y vuestro amor, que en todo podemos tratar con vos
como queremos, sin necesidad de que otros nos presenten o nos introduzcan. Vos
mismo descendéis a cosa tan pequeña como nuestra alma, y nos ensancháis y
engrandecéis poco a poco, conforme a lo que es menester para lo que queréis
poner en nosotros
Los fundamentos de la oración
Quizás
pensará que al hablarle de oración yo le enseñaré cómo debe sentarse o
respirar, cuánto tiempo debe dedicar a su ejercicio y cómo dividirlo para
ocuparlo bien. No es esa mi intención. Mejor le hablaré de los que yo considero
que son los cimientos sobre los que se ha de levantar el edificio de la oración:
el amor de unos con otros, el desasimiento de todo lo criado y la humildad
(que, aunque la digo a la postre, es la principal). Que, si estos fallan, se
vendrá abajo todo el edificio. Por eso, para que nuestra oración sea auténtica,
hemos de acompañarla con la práctica de estas virtudes grandes.
En cuanto al
amor, ya saben que los que más han hecho por los prójimos siempre han sido los
grandes amadores de Dios, y todo lo demás es humo de pajas, que dura un
momento, como se suele decir. Y, para unirnos con Dios, que es el mismo Amor,
claro se ve que ha de ser caminando en el amor, como nos enseñó su Divino Hijo.
Es importante caer en la cuenta de que su amor nos precede y acompaña siempre,
ya que amor saca amor. Aprenderemos a amar a los hermanos si ponemos nuestra
mirada en el que nos amó hasta el extremo de dar su vida por nosotros y nos
pidió que aprendamos de su ejemplo.
Por lo que
se refiere al necesario desasimiento, paréceme es claro cómo hemos de
desembarazarnos de todo lo que no es Dios para llegarnos a Él. Si los quereres
y las cosas ocupan nuestros pensamientos y nuestras fuerzas, ¿cómo diremos que
amamos al Señor por encima de todo?
Decíale que
es igualmente necesaria la humildad, que no es otra cosa sino andar en la
verdad; esto es: conocernos, descubrir que no estamos huecos, sino que Dios
mismo nos habita, y comprender que estamos llamados a unirnos con Él y que,
aunque con nuestras solas fuerzas no somos capaces, podemos disponernos para
que Él obre en nosotros. Pidámosle confiadamente su luz, que Él no se niega a
nadie.
El conocimiento de sí
No le
extrañe si le digo que esto del conocimiento propio es esencial. Y no solo en
los inicios, sino en cada momento, que es el pan con el que hemos de acompañar
todos los manjares. Y es que muchas veces no nos conocemos a nosotros mismos ni
sabemos las grandes capacidades que Dios ha colocado en nosotros. Pues
entonces, ¿cómo podremos desarrollarlas y ponerlas en práctica?
Vuelvo a
repetir la comparación de la que he hablado antes, porque no encuentro otra
mejor: Pensemos que nuestra alma es un castillo de cristal en el que hay muchas
moradas y en el centro de ellas está la principal, en la que vive Dios. De ahí
le viene su hermosura, su riqueza y sus grandes capacidades. Para poder
desarrollarlas, hemos de conocerlas primero.
Y no es
pequeña lástima y confusión que –por nuestra culpa– no nos entendamos a
nosotros mismos ni sepamos quiénes somos. ¿No sería gran ignorancia que
preguntasen a uno quién es y no se conociese ni supiese quién fue su padre ni
su madre ni de qué tierra? Pues si esto sería gran bestialidad, sin comparación
es mayor la que hay en nosotros cuando no procuramos saber qué cosa somos, sino
que nos detenemos en estos cuerpos y así, a bulto, sabemos que tenemos almas
solo porque lo hemos oído y porque nos lo dice la fe. Mas qué bienes puede haber
en esta alma o quién está dentro de ella o su gran valor, pocas veces lo
consideramos.
Por eso, lo
primero que hemos de hacer al orar es tomar conciencia de la grandeza y
dignidad de nuestra alma, de sus inmensas capacidades, para hacerlas fructificar
con la ayuda del Señor y así no quedarnos enanos.
Las distracciones en la oración
Quiero
recordarle una vez más que la verdad de nuestra oración no se manifiesta en qué
pensamos o sentimos, sino en cuánto amamos; por eso siempre debemos ocuparnos
en lo que más nos despierte a amar. Quizá no sabemos qué es amar, y no me
sorprenderá mucho; porque el amor no está en el mayor gusto, sino en la mayor
determinación de desear contentar en todo a Dios y en procurar no ofenderle en
cuanto pudiéremos, y en rogarle que vaya siempre adelante la honra y gloria de
su Hijo y el aumento de la Iglesia Católica. Estas son las señales del amor, y
no penséis que lo importante es no pensar en otra cosa, ni que va todo perdido
cuando en la oración se os va un poco el pensamiento.
Yo he
sufrido mucho a causa de esto, porque me decían que mi oración no era auténtica
si tenía distracciones. Pero he visto por experiencia que estas solo
desaparecen en las últimas moradas, cuando el Señor las hace cesar. Por eso no
hay que darles demasiada importancia ni permitir que nos quiten la paz. Tampoco
hemos de dejar la oración cuando no podemos controlar los pensamientos. La
solución es llevarlos con paciencia, ya que provienen de la debilidad de
nuestra naturaleza humana, herida por el pecado. Como los pensamientos de la
imaginación son cosa de nuestra pobre naturaleza, no deben inquietarnos ni
afligirnos cuando no podemos controlarlos. Lo importante es perseverar buscando
contentar en todo al Señor, aun con nuestras flaquezas.
Los grados de la oración
La oración
es un arte, en el que podemos perfeccionarnos durante toda la vida. No piense
que ha de practicarse siempre a la misma manera. Para explicarme mejor, voy a
hacer uso de una comparación: El que comienza a orar ha de hacer cuenta que es
como el que quiere plantar un huerto en una tierra abandonada, llena de piedras
y malas hierbas. Con ayuda de Dios hemos de procurar, como buenos hortelanos,
quitar las piedras y malas hierbas del corazón, que son nuestros pecados, y
plantar las buenas, que son las virtudes. Hemos de procurar que crezcan estas
plantas, y tener cuidado de regarlas, para que no se pierdan, sino que vengan a
echar flores que den buen olor, para que este Señor nuestro venga a deleitarse
muchas veces a nuestro jardín y se encuentre allí a gusto.
Los que
comienzan a tener oración son como los que sacan agua de un pozo, que es algo
trabajoso y el resultado bien pequeño. Es verdad que les cuesta mucho recoger
los sentidos, que como están acostumbrados a andar desparramados y llenos de
ruidos, es harto trabajo. Han menester irse acostumbrando a estar en silencio
interior y exterior, leyendo en buenos libros y discurriendo con su
entendimiento en lo que leen, meditando en la vida de Cristo, y en el
conocimiento de sí mismos, y en los misterios de nuestra santa religión. Hay
muchos libros para esto, que presentan meditaciones para cada día de la semana
y pueden ayudar mucho en los inicios.
La segunda
manera de regar el huerto es sirviéndose de una noria, con su torno y
arcaduces, que se saca más agua con menos trabajos (recuerdo que en la casa de
mi padre había una de esas). A este modo llamo yo «oración de quietud», en que
comienzan a recogerse las potencias del alma dentro de sí. Hay que procurar
tener a Cristo, nuestro bien, siempre presente, acostumbrándose a no se le dar
nada de ver u oír fuera de Él. Si está triste, mírele camino de la cruz,
perseguido de unos, negado de otros, helado de frío, puesto en tanta soledad,
que el uno con el otro os podéis consolar. Y Él es tan bueno que olvidará sus
penas para consolar las vuestras. Si está contento, mírele resucitado y gócese
en su gloria. Mas no se canse en pensar mucho ni se quiebre la cabeza con
muchas palabras, sino lleve la voluntad con mucha suavidad a estarse en amorosa
atención y tierno afecto con su Esposo. Cuando la memoria y el entendimiento no
ayudan a la voluntad a despertarse para más amar, no las haga caso y céntrese
en esta atención amorosa a su Esposo en paz y sosiego, sin buscar palabras ni
consideraciones que lo quieran explicar. Déjese mirar por Cristo y mírele con
afecto y gratitud.
La tercera
forma de regar el huerto es cuando se tiene un río o un arroyo, que se encamina
el agua por los surcos y se la deja que empape la tierra con poco trabajo del
hortelano. Cierto es que la corriente de agua la tiene que dar el Señor. Este
tercer grado de oración es un sueño de las potencias en que se goza de Dios con
mucho deleite, sin entender qué le pasa ni poderlo explicar con palabras. No me
parece que esta paz y deleite y contento nazcan del propio corazón, ni de sus
pensamientos, ni de lo que ha visto ni oído, sino de otra parte más interior.
El contento que se siente no es como los de acá. Pienso que debe ser algo que
sucede en el centro del alma, donde Dios está presente y se comunica. El alma
se olvida totalmente de sí y solo desea cumplir en todo la voluntad de Dios.
Bien puedo decir que se cumple lo que decía el apóstol san Pablo: que el
Espíritu de Dios ora en nosotros con gemidos inefables. Es tal el gozo interior
que toda ella querría ser lenguas para alabar al Señor, al que dice mil
desatinos santos y amorosos.
El cuarto
grado de oración es como cuando llueve sobre el campo, que la tierra se moja
más y el hortelano no trabaja nada. Así, cuando Dios quiere comunicarse en esta
divina unión, se goza sin entender lo que se goza, participando de la vida y
del amor y de la compañía de Dios, que la levanta y la introduce en sí. Hagamos
cuenta que los sentidos y las potencias (que son los habitantes del castillo)
escuchan un silbo amoroso de su Rey. Un silbo tan suave que casi no lo
entienden, pero produce su efecto y dejan de lado todas las cosas exteriores en
que andaban ocupadas. Entonces se meten en el castillo y ocúpanse todos en lo
que deben, que es en servir a su Señor, cumpliendo así el oficio para el que
fueron creados. El entendimiento conoce secretos inefables de Dios y la memoria
queda llena de su presencia y la voluntad se hace una con la de Cristo, de modo
que puede decir como el apóstol, que ya no vive ella, sino que es Cristo quien
vive en ella.
La unión de voluntades
No todos
tienen gustos en la oración, que los da su Majestad a quien quiere y como
quiere. Será bueno que aquellos a quienes el Señor no da cosas tan
sobrenaturales no queden sin esperanza, porque –con el favor de nuestro Señor–
todos podemos alcanzar muy bien la verdadera unión si nos esforzamos en
procurarla, queriendo cumplir en todo la voluntad de Dios. Esa es la unión que
yo he deseado toda mi vida, la que siempre pido a nuestro Señor y la que es más
clara y segura.
Pero advierta
que no basta con desearlo o con imaginarlo. El único camino para saber si de
verdad queremos hacer en todo la voluntad de Dios está en las obras concretas
que revelan que nuestro amor es verdadero, ya que el Señor solo nos pide dos
cosas en las que tenemos que trabajar: amor a Dios y al prójimo. Si las
cumplimos con perfección, hacemos su voluntad y estaremos unidas con Él con
oración verdadera.
Esto del
amor es tan importante que debemos ir practicándolo en las cosas pequeñas y no
dejarlo solo para las ocasiones extraordinarias. Lo que quiere el Señor es que
si ve a una enferma a la que puede dar algún alivio, no le importe perder su
devoción y se compadezca de ella; y si tiene algún dolor, que se duela con ella;
y si es necesario, que yo ayune para que ella coma. Esta es la verdadera unión
con su voluntad, y que si veo alabar mucho a otra persona me alegres más que si
me alabasen a mí.
El mayor
servicio que podemos hacer al Señor es olvidar nuestro descanso para buscar el
bien de los hermanos, aunque claro está que eso no es sencillo, porque
contradice nuestra naturaleza. Y no piense que esto no ha de costarle algo y
que se lo ha de encontrar hecho. Mire lo que costó a nuestro Esposo el amor que
nos tuvo, que murió en la cruz para librarnos de la muerte.
La perseverancia
Hele cobrado
muy particular afecto, que no hay para mí mayor deleite que tratar con personas
que hacen oración. Dicen algunos que esta es una senda estrecha. No me lo
parece a mí, sino Camino Real, que de seguro nos lleva al Reino prometido. El
alma ocupada en la oración es como la abeja, que labra en la colmena la miel.
Así, cuanto vuelan a Dios y se llenan de su dulzura, pueden extenderla por el
mundo.
Cierto,
hemos de orar en todas partes, mas es tanta nuestra flaqueza, que será bien
buscar algunos ratos de soledad y llevar concertados los tiempos que dedicamos
cada día al señor, y una vez comenzada la oración, no dejarla por cualquier
nonada, sino perseverar hasta beber de las aguas de la vida que Nuestro Señor
nos promete. Comience, pues, con una determinada determinación, dedicando cada
día un poco de su tiempo a estar en presencia del que tanto nos ama. Y no deje
la oración jamás, por muchas sequedades, tropiezos y distracciones que el
demonio le pusiere delante; que tiempo vendrá en que se lo pague el Señor todo
junto. Y, pues nada se aprende sin un poquito de esfuerzo, dé por bien empleado
este, que yo le digo que, por un momento que le dé el Señor a gustar su
presencia, quedan pagados todos los trabajos que en buscar oración pasare.
Ponga los ojos en Cristo y en todo lo que Él ha pasado por amor a nosotros, y
todo se le hará poco.
Quede
vuestra merced con Dios y con la gloriosa Virgen María, Nuestra Señora. Ella no
estuvo un instante de su vida sin tratar de amores con su Divino Hijo, y así ha
de ser nuestra principal maestra de oración, junto con mi padre y señor san
José, que tan íntimamente trató, también, a su Majestad en la tierra. Y
manténgase en este camino, sin abandonar a mi Señor, que Él mismo enseña que
empezar es de muchos y perseverar de pocos; y en estos tiempos recios son
menester amigos fuertes de Dios.
Quedo sierva
de vuestra merced. Teresa de Jesús.
8. Conclusión
Teresa de Jesús fue una mujer profundamente
contemplativa y eficazmente activa. Como decía al principio, en estas páginas
he intentado acercar al lector a su riquísima personalidad desde cuatro aspectos
que la caracterizan: mujer, escritora, fundadora y maestra de oración. Para que
se comprenda mejor la originalidad de su propuesta, la he presentado en su
contexto vital, del que toma algunos elementos y al que se enfrenta en otros.
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